19 aprile 2024
Aggiornato 10:00
Il «black monday» cinese ha lasciato ieri Wall Street in profondo rosso

Dalla Cina alla FED, i fattori per comprendere sell-off globale

La Cina, osservano alcuni osservatori, non basta a spiegare quanto sta succedendo sui listini mondiali, anche se sembra che la sua economia stia effettivamente rallentando. Bisogna guardare anche ai mercati emergenti, dal Messico alla Malesia e al calo del prezzo del petrolio.

NEW YORK (askanews) - Il «black monday» cinese ha lasciato ieri Wall Street in profondo rosso anche se gli indici, pur ampliando i cali nell'ultima ora di scambi, hanno saputo risollevarsi dai minimi intraday osservati all'avvio delle contrattazioni. A innescare un sell-off globale è stata ancora una volta la Cina. Ma c'è un insieme di fattori da considerare per comprendere il quadro globale. Pechino a parte, essi comprendono i mercati emergenti, i fondamentali del greggio e le possibili mosse della Federal Reserve.
Non solo Cina È vero che il calo dello Shanghai Composite (ieri -8,5%) ha portato il bilancio 2015 in rosso. Ed è vero che il -38% registrato dall'indice dai massimi del 12 giugno sembra notevole. Ma il listino ha guadagnato il 43% nell'ultimo anno. Quel che preoccupa è soprattutto la presunta incapacità delle autorità locali a riportare un po' di stabilità nei mercati.

Mercati emergenti e «taper tantrum»
La Cina, osservano alcuni osservatori, non basta a spiegare quanto sta succedendo sui listini mondiali, anche se sembra che la sua economia stia effettivamente rallentando. Bisogna guardare anche ai mercati emergenti, dal Messico alla Malesia. Il fatto che le loro valute e i loro mercati azionari e obbligazionari abbiano particolarmente sofferto nell'ultima settimana riflette le paure legate alla loro esposizione alla Cina, specialmente per le nazioni che producono materie prime acquistate dalla seconda economia al mondo.
Di mezzo però c'è anche quello che è stato ribattezzato il «taper tantrum 3.0». La prima versione di questo fenomeno risale al giugno 2013, quando ci fu una reazione negativa dei mercati alle parole del numero uno della Federal Reserve dell'epoca: Ben Bernanke anticipò un possibile «tapering», ossia la riduzione del ritmo con cui la banca centrale Usa acquistava mensilmente Treasury e bond ipotecari, un programma di stimolo dell'economia arrivato al suo terzo round e terminato nell'ottobre 2014.
La seconda versione ci fu nell'autunno scorso, quando la Fed iniziò a segnalare l'intenzione di alzare i tassi per la prima volta dal 2006 nel corso del 2015. In un contesto caratterizzato da politiche monetarie accomodanti in Usa, gli investitori di tutto il mondo andarono alla ricerca di alti rendimenti: trovandoli nei mercati emergenti a rapida crescita, gli stessi investitori alimentarono in flusso di capitali verso quelle regioni. Ma con l'avvicinarsi dell'aumento del costo del denaro, quei flussi hanno iniziato a cambiare direzione creando volatilità. Anche nei prezzi delle materie prime, in primis del greggio.

Petrolio
Se il costo di un barile di petrolio lo scorso giugno si aggirava intorno ai 60 dollari al barile, ora siamo in area 38 dollari. Una contrazione di circa il 58% fa bene ai consumatori ma innesca anche un circolo vizioso che sta preoccupando aziende energetiche (che hanno ridotto investimenti e personale) ed economisti. Un eccesso di scorte a fronte di una domanda debole si sta verificando da oltre un anno, ma nonostante ciò la produzione è rimasta alta, specialmente in Usa. Ciò si traduce in quotazioni basse, che così ledono i paesi produttori, dalla Russia al Medio Oriente fino all'America Latina.

Federal Reserve
Da tenere in considerazione c'è poi la Fed. Nell'ultima riunione, quella dello scorso luglio, la banca centrale americana aveva affermato (come emerso dai verbali diffusi mercoledì scorso) che le «condizioni per un rialzo dei tassi di interesse non sono state ancora raggiunte ma si stanno avvicinando». Ciò ha lasciato aperta la porta a una stretta nell'incontro del 16 e 17 settembre prossimi. Ma dopo quanto osservato sui mercati nell'ultima settimana, sempre più operatori prevedono un posticipo di una stretta.
Stando ai future sui Fed-Funds, usati dagli investitori per fare scommesse sulla politica della banca centrale Usa, gli investitori vedono il 24% di probabilità per un aumento dei tassi il mese prossimo, contro il 48% della settimana scorsa. E il fatto che il dollaro ieri sia scivolato rispetto a euro e yen dimostra che i trader scommettono in una Fed paziente. L'istituto guidato dal governatore Janet Yellen si troverà di fronte a una scelta ancor più difficile se i mercati continuano a essere volatili ma il quadro macroeconomico Usa resta buono.