28 marzo 2024
Aggiornato 09:30
L'intervista

Stefano Fassina: «Vi spiego perché il Mes è una trappola»

L'ex sottosegretario all'Economia, molto critico verso le politiche economiche anti-crisi dell'Europa: «Quando diventi debitore, devi sottoporti per statuto all'analisi di sostenibilità»

Stefano Fassina, ex sottosegretario all'Economia
Stefano Fassina, ex sottosegretario all'Economia Foto: ANSA

Il Mes è un bluff: serve un intervento deciso della Bce, altrimenti si valuterà addirittura l'uscita dall'Euro. A sentirle così, sembrerebbero le parole di un sovranista di ferro. Invece, a pronunciare questo duro attacco alle politiche europee per contrastare la crisi del coronavirus è un esponente di Liberi e Uguali, il partito più di sinistra presente nel parlamento italiano: Stefano Fassina. L'ex sottosegretario all'Economia si è spesso distinto per le sue posizioni, decisamente autonome rispetto a quelle del suo stesso schieramento. E anche in questa circostanza, come dimostra nell'intervista che ha concesso ai microfoni del DiariodelWeb.it, non fa certamente eccezione.

Onorevole Stefano Fassina, cosa pensa delle misure intraprese finora dal governo per contrastare gli effetti economici del coronavirus?
Il 17 marzo è stato fatto un primo passo importante, ma certamente insufficiente. Con grande franchezza, ritengo che subito dopo bisognasse dare un sostegno al reddito a quei circa 3 milioni di persone che non hanno preso né le casse integrazioni né il bonus per le partite Iva. C'è un universo molto rilevante di italiani che non possono lavorare, non hanno reddito e non sono stati ancora sostenuti dagli interventi messi in campo. Si sarebbe dovuto anticipare già prima di Pasqua il decreto, che invece forse arriverà la prossima settimana, senza aspettare i vari vertici europei per approvare l'ulteriore deficit. Si tratta di misure fondamentali.

Questo per quanto riguarda i singoli lavoratori. E per le imprese?
Il discorso, in parte, è analogo. Il decreto liquidità non ha una dotazione di risorse adeguata a garantire quei 200 miliardi di credito bancario alle imprese. Oltre ad essere viziato da una serie di problemi di merito: il meccanismo è tale per cui le garanzie tendono ad essere utilizzate dalle banche per far rientrare le imprese dai crediti già presi, invece di finanziare credito aggiuntivo.

In sostanza, aiuteranno più le banche che le aziende?
Il rischio, molto serio, è proprio questo. Infatti stiamo preparando una serie di emendamenti, per fare in modo che quelle garanzie non vengano utilizzate per la sostituzione di credito già erogato.

Alcuni settori industriali hanno lanciato appelli chiedendo incentivi per riportare in Italia le produzioni esternalizzate. Eppure sono gli stessi che, quando gli conveniva, non hanno esitato ad andarsene...
Mi viene in mente la poesia del gatto di Trilussa. La conosce? «Quanno magno so' conservatore, ma fo er socialista quanno sto a diggiuno».

Come dire: privatizziamo i profitti e socializziamo le perdite.
Questo è un punto importante. Un altro emendamento che presenteremo vincola alla sede fiscale e legale in Italia per le aziende che ricevono le garanzie dello Stato. È inaccettabile garantire la Fiat, ad esempio, che ha residenza in Olanda.

Lei è stato molto duro anche nei confronti del Mes, persino di quello senza condizionalità proposto da Bruxelles. Lo ha definito «un bluff, una trappola»...
Sì. I trattati sono trattati, le chiacchiere sono chiacchiere. Come indica anche il documento dell'Eurogruppo del 9 dicembre scorso, rimangono tuttora in vigore tutte le norme del Mes. Il che significa che non sono previste condizionalità esplicite per l'accesso ma, quando diventi debitore, devi sottoporti per statuto all'analisi di sostenibilità. L'Italia sta andando verso un debito del 160% del Pil, quindi, nel momento in cui verrà fuori che siamo debitori molto rischiosi, partirà tutto il processo che porta alla troika. E poi, oltre a quello che c'è nel testo, è altrettanto fondamentale quello che manca.

Ovvero?
Non ci si è concentrati sull'unico obiettivo rilevante: l'intervento della Banca centrale europea.

Dovrebbe scendere in campo a stampare moneta?
A stampare moneta nella misura adeguata, visto che ieri il nostro spread è risalito di nuovo oltre i 280. Ma non solo: anche a sterilizzare i titoli di Stato acquistati. Questo è l'unico intervento sensato su cui si sarebbe dovuto concentrare il negoziato di quello schieramento di Paesi che invece ora punta ad un obiettivo marginale come i Recovery Bond.

Che cosa significa in concreto questa sterilizzazione?
Che la Bce deve prendere i titoli che compra e rinnovarli all'infinito, ad un tasso d'interesse praticamente zero. Sostanzialmente, bisogna far uscire dai mercati finanziari una quota del nostro debito, che è esploso non perché abbiamo fatto spesa facile, ma in conseguenza della situazione che stiamo attraversando.

Se tutto ciò non dovesse accadere, lei ha evocato anche l'eventualità di uscire dall'euro.
Penso che dobbiamo concentrare tutta l'attenzione, e tutto il capitale politico di cui disponiamo, affinché la Bce faccia ciò che stanno facendo tutte le banche centrali del mondo. Bisogna tenere conto che veniamo da vent'anni di sostanziale stagnazione. Già prima del coronavirus, eravamo ancora sotto al livello di Pil pro capite del 2008. Senza l'intervento della Bce, la prospettiva di un quadro economico difficile e di un debito del 160% sulle spalle soffocherebbe il Paese. A quel punto, per sopravvivere, dovremmo aprire gli occhi e capire se esiste un'alternativa.

E quest'alternativa sarebbe un'Italexit?
Sarebbe la proposta di Stiglitz, che non è certo un sovranista di destra. Ovvero, un divorzio amichevole, un superamento concordato della moneta unica. Senza rinunciare all'Unione europea, ma ridefinendola su basi confederali, al posto dell'ibrido attuale.