20 aprile 2024
Aggiornato 03:30
L'intervista

Luciano Tirinnanzi: «Perché proprio ora si è aperta la finestra per la pace con la Russia»

Il racconto e gli scenari del conflitto in Ucraina nelle parole al DiariodelWeb.it del giornalista ed editore Luciano Tirinnanzi, curatore del libro «È la guerra, bellezza!»

Il Presidente russo, Vladimir Putin
Il Presidente russo, Vladimir Putin Foto: Agenzia Fotogramma

«È la stampa, bellezza!», dichiarava Humphrey Bogart in un'immortale battuta del film «L'ultima minaccia». «È la guerra, bellezza!», gli risponde oggi il titolo di un libro appena uscito per Paesi edizioni, in cui quindici grandi reporter italiani (da Andrea Purgatori a Gian Micalessin, da Giuliana Sgrena a Domenico Quirico) raccontano in prima persona il complicato e prezioso mestiere dell'inviato al fronte. Prezioso a maggior ragione oggi, quando il conflitto in Ucraina è già diventato il più mediatico della storia. Il racconto di questa guerra e gli scenari che ci aspettano nel prossimo futuro li spiega al DiariodelWeb.it il giornalista ed editore Luciano Tirinnanzi, curatore del volume.

Luciano Tirinnanzi, nell'epoca delle fake news l'inviato di guerra rimane forse l'ultimo richiamo al senso autentico del giornalismo?
Uno degli autori, non dirò chi, lo ha definito «l'ultimo mestiere nobile».

Lei concorda con questa definizione?
In parte sì. Infatti ho voluto fare questo libro per sondare l'umore di chi sta in prima linea, vede con i propri occhi e riporta. E per questo motivo ha delle certezze, a differenza di tutti noi che dal desk riceviamo le agenzie e impastiamo gli articoli. Questo non significa che dicano sempre la verità ma, se non mentono a se stessi e non sono troppo politicizzati, davvero rappresentano un medium tra il fatto e il lettore.

Una testimonianza diretta, insomma.
Che è la chiave per comprendere le cose. Nel mio piccolo ho fatto il reporter di guerra per un breve periodo e mi sono accorto di una cosa.

Quale?
Che al fronte di solito si va con una delle due parti in campo. Sì, ci sono gli indipendenti, ma sotto certi aspetti è inevitabile che si venga portati da uno dei contendenti.

La condizione di embedded, così viene chiamata.
Esatto. Questo implica una presa di coscienza iniziale: che, anche inconsapevolmente, ci si trovi già dentro ad un sistema di riferimento.

Si osservi la realtà da un preciso punto di vista.
Proprio così. Ognuno non può che partire da un condizionamento culturale, questo è ovvio. Che è diverso dalla partigianeria. In Italia, purtroppo, non abbiamo l'abitudine anglosassone di raccontare il fatto e basta, ma lo carichiamo di romanticismo, di sentimenti, di sovrastrutture spesso inutili.

Che è come dire che ci sono tanti modi di raccontare lo stesso conflitto.
Non esiste un'unica verità di guerra, un'unica certezza. Ma se io metto insieme mille sfaccettature comunque mi avvicinerò il più possibile alla verità. Si riportano dei fatti, il lettore li legge e si farà una sua idea: questo è il senso del mestiere.

Nella narrazione di una guerra, però, assumere strutturalmente il punto di vista di una delle due parti, addirittura disconoscere la legittimità della prospettiva nemica, non ci allontana dall'obiettivo della pace?
Credo che il raggiungimento della pace non dipenda da noi: noi giornalisti subiamo queste dinamiche, le osserviamo e le raccontiamo. E tali logiche ci aiutano a gestire l'emozione e a comprendere il momento.

In che senso?
Pensiamo all'intervento nucleare dei russi. Non è un fatto, ma un timore. Le armi nucleari esistono, ma nessuna intelligence, nemmeno quella americana, può prevedere neppure lontanamente se verranno usate. Qui si entra nel campo delle speculazione, nel quale noi non abbiamo un ruolo. Possiamo solo guardare quello che succede. L'importante, alla fine di tutto, è avere contezza, consapevolezza e cultura di ciò che si racconta.

Bisogna informarsi prima di informare.
Non possiamo capire Vladimir Putin se non ne leggiamo la biografia e la contestualizziamo nell'epoca storica in cui è vissuto. La politicizzazione che c'è in Italia sull'argomento lascia il tempo che trova.

Tutto l'arco politico, ma anche la grande stampa, partono da un punto di vista filostatunitense.
Sappiamo tutti che noi siamo atlantisti, stiamo da quella parte. Da questo non si prescinde, basta vedere quante basi Nato abbiamo sul nostro territorio. Questa è la nostra storia: abbiamo perso la seconda guerra mondiale, abbiamo scelto gli Usa e ne siamo anche orgogliosi. Detto questo, dobbiamo anche sapere che, dall'Unione sovietica in avanti, molti giornali, singoli giornalisti ed editori sono stati e sono sovvenzionati tuttora da Mosca.

Come dire che questo vale per entrambe le parti.
Questa è consapevolezza e aiuta il dibattito. Se si sa che certi professorucoli, che vanno in tv per un po' di vanità e di pecunia, lo fanno in maniera strumentale, si è più sereni. A questo serve il giornalista, a raccontare le cose come stanno.

Lamberto Sechi, padre del moderno Panorama, per il quale lei scrive, parlava dei «fatti separati dalle opinioni».
Le opinioni sono legittime e ciascuno deve avere la sua: chi è contro la guerra, chi è a favore, chi sta con la Russia e chi con l'Ucraina. Su questo si può discutere. Ma i fatti sono fatti: questa non è una guerra tra Russia e Ucraina, è un'invasione della Russia all'Ucraina. Non si combatte in Russia, ma solo in Ucraina. Questo è un punto di partenza ineludibile. Poi sulle colpe di ciascuno si possono scrivere libri, appunto.

Come l'invenzione della tv, che per la prima volta ha portato nelle case di tutti le immagini dei bombardamenti, anche i social network hanno cambiato il racconto della guerra?
Secondo me ha fatto fare dei passi indietro. La tv non poteva manipolare i video e le immagini, o quantomeno era molto più difficile. Quando sono usciti i social network, non ci hanno dato il libretto d'istruzioni e questo ha finito per screditare il ruolo che avrebbero potuto avere.

Un ruolo anche positivo lo hanno avuto.
Ci hanno uniti tutti, compresi però gli imbecilli, e questa è una conseguenza grave. Di sicuro influenzano, questo è evidente, ma il giornalista non deve cadere nell'errore di credere a tutto solo per la smania di pubblicare prima degli altri.

La verifica giornalistica, con la rapidità della rete, è passata in secondo piano.
Lavorando a questo libro mi sono stampato il «Decalogo del giornalista» di Piero Ottone. Al punto tre lui scriveva: «Verifica quello che ti dicono, se non puoi verificare prendi le distanze». Questo è importantissimo. Se non hai verificato che quel video è reale, perché dici che mostra l'efferatezza degli ucraini o dei russi? Non è corretto, è giornalismo cialtrone. Ma c'è un altro punto, che abbiamo messo in quarta di copertina, che per me racchiude il senso di tutto il libro.

Cioè?
Il punto nove: «Prima di scrivere nel titolo che 'Londra è nel panico', vai a Londra e controlla se davvero otto milioni di persone sono uscite di testa». Magari invece sono tutti a prendere il tè. Non si può dire le cose un tanto al chilo.

Questo è anche il modo in cui la stampa racconta il web: basta qualche manciata di commenti per scrivere che «la rete si indigna».
Sarebbe interessante, sociologicamente, capire quando la politica e il giornalismo si sono lasciati prendere dai social network, quando il mezzo di comunicazione ha prevalso sul pensiero. La testa non dovrebbe seguire la pancia del Paese, semmai il contrario.

Da esperto di geopolitica e attento osservatore, che evoluzione si attende per la guerra in Ucraina?
Dal 24 febbraio sostengo che si sa chi comincia una guerra e non si sa chi la finisce. È il classico «snowball effect»: si è creata la palla di neve, che però sta diventando una slavina che ci potrebbe travolgere tutti. Però io penso anche che il momento per la pace sia ora.

Come mai?
Perché siamo arrivati a un livello di escalation notevole, con attentati terroristici e boicottaggi, ma ancora sono due i Paesi che combattono. La situazione è relativamente sotto controllo.

Almeno finora.
Nel momento in cui i russi non riescono a prevalere e, di fatto, hanno perso la guerra, Putin potrebbe alzare il tono coinvolgendo Bielorussia e Polonia e la situazione andrebbe peggiorando. Questo ci porterebbe a un'escalation certa, ci sarebbero tutti gli elementi per un conflitto lungo, in espansione, che sia ricordato dalla storia come la terza guerra mondiale.

Ma c'è anche l'altro scenario possibile che tutti auspichiamo.
Si è aperta una finestra per la pace, che si richiuderà a breve. Ha visto il tweet di Elon Musk?

Quello in cui ha rilanciato le condizioni suggerite per far finire la guerra: ripetizione delle elezioni nelle regioni annesse sotto la supervisione Onu, la Crimea formalmente parte della Russia con le forniture d'acqua assicurate e la neutralità dell'Ucraina.
Non lo ha scritto mica perché aveva fumato marijuana, eh! Lui riceve le commesse dal Pentagono, sa qual è la realtà sul campo, e gli è stato suggerito di farsi ambasciatore. Quelle sono le proposte di Washington a Mosca e sono anche generose.

Come risponderà Putin?
Deve cedere: ha perso la guerra, se ne faccia una ragione. Guadagnerà comunque qualcosa, per non essere disarcionato, ma non deve dare retta ai falchi. Se non accetta e si chiude nella torre d'avorio come un dittatore, il conflitto continuerà ancora a lungo. E andremo tutti incontro a conseguenze ben peggiori, compresa la Russia.