19 aprile 2024
Aggiornato 00:30
Elezioni amministrative

Vince la destra anti-sistema, disastro Pd: ma chi comanda veramente le città?

Disastro del partito di Matteo Renzi, che però non ammette la sconfitta. Avanza la destra di chi non crede al sistema. Trionfa l'astensionismo in nome del «tanto sono tutti uguali». Ma tale affermazione è falsa?

ROMA - Da Genova a L’Aquila, il Pd perde dodici città. Un buon risultato per i democratici quindi, perché Matteo Renzi poteva essere centrato da un meteorite e questo non è avvenuto. Il Partito democratico perde a Pistoia, La Spezia, Monza, Lodi, Como, Piacenza e Sesto San Giovanni ,che nel Dopoguerra non aveva mai avuto un sindaco di destra. Ha votato il 46,02%, calo superiore ai 12 punti. Calo omogeneo in tutte le città al voto. Tracollo a Taranto e Como, sotto il 35%. Percentuali alte solo a Padova e Rieti. Anche zone come Emilia-Romagna e Toscana, dove solitamente l'affluenza è molto alta, si fermano sotto il 50%. A Trapani va alle urne meno della metà degli elettori, quindi il candidato unico del Pd non viene eletto: arriva il commissario. Asciugate le lacrime in gran segreto per chi sa di aver perso, e terminati i brindisi per chi sa di aver vinto, rimane il grande enigma: chi comanda le città? Chi comanda veramente, chi decide cosa fare e cosa non fare. Chi decide se privatizzare o meno un servizio, aprire o chiudere un asilo, organizzare o meno una festa di quartiere o un concerto, quando tagliare l’erba o dove mandare i vigili urbani a fare controlli?

Democrazia contro debito
Perché gli italiani non vanno più a votare? La vulgata, classista, vorrebbe far ricadere tale disaffezione sull’assottigliamento del senso civico dilagante, che porterebbe percentuali sempre maggiori di italiani a disertare le urne. La discesa, ma sarebbe meglio parlare di tracollo, è evidente, ma per comprendere il fenomeno si deve partire dal principio opposto rispetto alla lettura dominante: si tratta di un disegno preciso che sta procedendo, non di un evento congiunturale. Il lento ma incessante cammino che vuole portare alla dissoluzione degli Stati prevede che la percezione del cittadino medio relativamente alle istituzioni locali sia incardinata sull’aggettivo «inutile». Nei discorsi da bar, importantissimi e denigrati, dilaga la locuzione «tanto non cambia niente». Non si tratta di populismo, ma se tale vogliamo definirlo si può sostenere che tale affermazione, da un punto di vista economico, ha una sostanzialità molto corposa. Dimentichiamo i proclami di «cambiamento» che vengono esibiti dopo ogni tornata di voto locale: ormai, e i cittadini lo hanno capito, queste manifestazioni elettorali hanno un valore reale poco diverso dal derby delle squadre di calcio di una città più o meno grande. Può sembrare questa un’affermazione provocatoria, e in parte lo è, ma parte da un principio di realtà innegabile e, dato il momento storico, al momento insuperabile.

Istituzioni locali legate mani e piedi (e collo) alle banche
Le istituzioni locali sono legate mani, piedi e collo – ben stretti – al rapporto con il potere finanziario. Buona parte dei comuni italiani hanno debiti enormi con le banche – quelle di cui poi lo Stato si accolla i debiti e regala la parte buona ai privati, come nel caso delle due popolari venete – e la gestione della cosa pubblica non può che essere incardinata sul primato della restituzione di capitale ed interessi, attraverso due strumenti: la cosiddetta «estrazione di valore», e l’austerità di bilancio. Altre prospettive porterebbero al commissariamento. L’egemonia della post ideologia – ovvero la più ideologica delle ideologie – è il terreno dove il mito della gestione aziendalista della cosa pubblica trova maggiore fertilità. L’unica cosa che conta è la gestione efficiente delle istituzioni pubbliche: la fine del diritto pubblico, la trasformazione della res publica in un soggetto commerciale. Un comune, o una regione, da gestire con parametri valoriali che potrebbero andare bene per una drogheria. Un esercizio commerciale che, per di più, è incravattato dalle banche. Un esercizio commerciale che dipende totalmente dai soldi che gli istituti finanziari elargiscono. L’ha detto recentemente, in un incontro pubblico, pure una consigliera comunale del M5s di Torino, Maura Paoli: «Una banca ci dà i soldi per pagare gli stipendi, e l’altra paga lo stato sociale»

Un voto alla destra anti-sistema
In queste condizioni è evidente che la relazione non sarà più tra cittadino ed eletto, ma tra eletto e banca. Il tutto, ovviamente, in una situazione di perdurante crisi economica, in particolare del settore primario abbattuto dalla delocalizzazione globale, nonché dalla concorrenza sfrenata della robotizzazione. Di questi meccanismi, anche se non vengono spiegati dai media di peso, il cittadino italiano si è accorto. Ha capito che esistono delle vie forzate che, all’atto pratico, rendono le politiche del territorio estremamente simili ovunque, da decenni. Il M5s poteva rappresentare un’alternativa, ma le esperienze fallimentari di Torino e Roma hanno invogliato verso l’astensione o il voto a destra. Che, però, non  è un voto a Silvio Berlusconi, che spera di poter ricandidarsi così alle prossime elezioni politiche quale capo di rinnovato Polo delle Libertà. E’ un voto alla destra di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, ovvero la componente lepenista del centrodestra. La scelta, che si riproporrà alle prossime elezioni politiche, è stata tra un partito Almirante-Berlinguer, una immensa Democrazia cristiana che va da Berlusconi a Renzi - l’ultima Dc ovviamente non quella nobile del Dopoguerra - e la destra vera anti-sistema. Ovviamente gli ultimi romantici che ancora credono nel potere del voto, hanno scelto per la destra vera.