2 maggio 2024
Aggiornato 14:30
Lavoro

Non è vero che mancano competenze digitali in Italia, il problema è delle aziende

Nascono continuamente corsi di formazione per le nuove professioni digitali, eppure si continua a dire che ci sarebbero 4 milioni di posizioni aperte in Italia che non riescono a essere soddisfatte. Dove sta davvero il problema.

Non mancano competenze digitali in Italia, il problema è delle aziende
Non mancano competenze digitali in Italia, il problema è delle aziende Foto: Shutterstock

TORINO - Quattro milioni. Sarebbero questi i posti di lavoro disponibili in Italia le cui posizioni restano, tuttavia, scoperte a causa di scarna competenza digitale dei nostri giovani neolaureati. Un numero da brividi che ha offerto a La Stampa in una recente intervista Davide Dattoli, il fondatore bresciano di Talent Garden, la più grande piattaforma in Europa per i talenti del digitale che ha da pochi mesi chiuso un round di finanziamento record, mettendosi in tasca ben 12 milioni di euro da 500 Startup e altri family officer. Di certo Davide non dice nulla che non sappiamo già. Con l’avanzamento tecnologico e digitale nascono nuove professioni e, del resto, come aveva detto lo stesso Elio Catania, presidente di Confindustria Digitale, le professioni che saranno svolte tra 10 anni, devono ancora essere inventate.

Problema di cultura non di competenze
Un problema di cultura, laddove ancora molti giovani e famiglie, credono che una laurea in ‘Legge’ o ‘Economia’ sarà in grado di assicurare un futuro certo e, si spera, a contratto a tempo indeterminato. Sicuramente un problema di cultura, ma - a nostro avviso - non necessariamente un problema di mancanza di competenze, come si sente ripetere da diversi anni (negli ultimi mesi poi siamo arrivati a livelli esponenziali). E forse ciò che manca non sono tanto le misure governative (che seppur a tratti macchinose enti come il MISE stanno cercando di semplificare il più possibile), quanto piuttosto la consapevolezza del privato, imprese italiane in prima linea.

Sempre più corsi per professioni digitali
Anche perché di corsi per professioni digitali ce ne sono a bizzeffe, organizzati da piccole startup emergenti fino a arrivare a quelli offerti dai Big. Digital Magics ha recentemente avviato le iscrizione a ‘Digital Startup University’, uno dei più importanti poli italiani di formazione telematica nato dall’accordo tra Digital Magics, Universitas Mercatorum e Università Telematica Pegaso. C’è poi il corso di formazione lanciato da Samsung Innovation Camp per la nuova figura professionale dell’Innovation Designer’, progetto sviluppato in collaborazione con Randstad e Università Cattolica di Milano, rivolto ai giovani cioè laureati, laureandi, diplomati e disoccupati di tutta Italia che non abbiano ancora compiuto 30 anni. Anche l’Università di Milano Bicocca ha lanciato un percorso di studio rivolto alle professioni in campo ‘Data Science’ (Big Data Analyst e Artificial Intelligence). Lo stesso vale per il settore dell’Automotive che vede in prima linea gli atenei dell’Emilia Romagna i quali hanno lanciato il percorso di Laurea Magistrale in Advanced Automotive Electronic Engineering. La stessa Tag Innovation School di Talent Garden è attiva nel campo della formazione. Per essere precisi, poi, siamo in piena fase recruiting da parte della Developer Academy (targata Apple) dell’Università Federico II di Napoli che quest’anno ha deciso addirittura di raddoppiare il numero di studenti accolti, da 200 a 400. Insomma, l’offerta formativa non manca. E questi sono solo alcuni dei percorsi offerti a livello nazionale. Le possibilità per sviluppare le competenze adeguate, quindi, ci sono. E diciamocela tutta, anche le competenze ci sono.

Manca la consapevolezza delle PMI del territorio
Quello che manca, però, è anche la consapevolezza delle aziende private nell’investire in talenti digitali. Basta un dato: nel primo quadrimestre del 2017 ci sono state 34 acquisizioni da parte di corporate in startup dell’intelligenza artificiale. Nessuna di queste è avvenuta in Italia (ne sono avvenute anche in Spagna per intenderci). E questo, per alcuni aspetti, dipende dalla scarsa maturità delle nostre startup, ma anche dalla cultura delle imprese italiane che, se guardiamo alle offerte di lavoro per professioni digitali, lasciano alquanto a desiderare. Il motivo? Non danno possibilità di crescita. In un recente articolo che abbiamo scritto, ci siamo chiesti perché un ingegnere software (italiano) avrebbe potuto rifiutare 3mila euro di stipendio. Grazie a questa ricerca (che vi consigliamo) abbiamo capito che non è vero che non esistono developer competenti in Italia, ma che sono le aziende che non sanno dare garanzie: non sanno davvero la figura professionale di cui hanno bisogno (offerte di lavoro poco chiare) e, soprattutto, offrono progetti obsoleti che non danno ai candidati la possibilità di crescere e innovarsi a loro volta. E noi abbiamo fatto riferimento al solo settore degli ingegneri software, immaginando che la situazione non sia poi così diversa per gli altri settori. E tutto ciò senza considerare la questione degli stipendi, già ampiamente dibattuta.

I cervelli in fuga
Un altro dato: l’ondata migratoria che colpisce il nostro Paese è da considerare. E stiamo parlando di 1 milione di giovani in fuga tra i 18 e 34 anni, soprattutto ricercatori precari. Che all’estero brillano. Anche questi cervelli in fuga non hanno competenze? O forse fuggono all’estero (dove siamo sicuri esista un mercato dell’innovazione florido) perchè le aziende li pagano e gratificano?

Abbiamo tanti giovani imprenditori
Altri dati ci fanno riflettere e sono quelli emersi dall’ultimo Focus sul lavoro Censis-Confcooperative secondo cui i giovani che lavorano oggi valgono 46,5 miliardi di euro, il 2,8% del Pil. E allora vien da dire che non siamo un paese di soli Neet, ragazzi che né studiano né lavorano. Oggi i titolari d'impresa giovani sono 175.000, di cui il 24,7% presente nel Nord-Ovest, il 15,7% nel Nord-Est, il 18,5% nelle regioni centrali, mentre nel Mezzogiorno la quota raggiunge il 41,1%. In particolare la dinamica positiva vede crescere del 53,4% il numero dei giovani titolari d'impresa nei servizi d'informazione e altri servizi informatici, del 51,5% nei servizi per edifici e paesaggio, del 25,3% nei servizi di ristorazione. Nelle attività legate alla gestione di alloggi per vacanze e altre strutture per soggiorni brevi l'incremento è del 55,6%. Raddoppiano, inoltre, i giovani imprenditori nelle attività di supporto per le funzioni d'ufficio e i servizi alle imprese (+113,3%). Considerando solo i settori in cui si manifesta una dinamica positiva, tra il 2009 e il 2016 i titolari d'impresa giovani aumentano del 32%, passando da 27.335 a 36.079. Insomma, questi giovani un po’ di competenze ce le avranno, no? Se vogliono sopravvivere nel mondo del lavoro e dell’imprenditoria.

Andare in strada
Gira che ti rigira, alla fine, come lo stesso Davide Dattoli conferma alla fine dell’intervista, resta una questione culturale, e la comparazione con i nostri vicini di casa e il piano varato da Macron si fa subito immediata. Quello che forse dovremo smettere di fare, però, è puntare il dito verso il settore pubblico e scendere per strada, tra i nostri imprenditori, quelli radicati sul territorio. Forse sono loro che hanno bisogno della VERA formazione.