I dazi di Trump riproducono le regole economiche che fecero risorgere l'Europa dalle macerie della guerra
Confondere volutamente lo stimolo alla domanda interna con l'autarchia: questo sta avvenendo
WASHINGTON - Analizzata nella forma brutale con cui viene propagandata dai principali mezzi di comunicazione, la politica dei dazi del presidente statunitense Donald Trump non lascia spazio a interpretazioni: pericolosa, sbilanciata, retrograda, con evidenti rischi di isolazionismo novecentesco. Il presidente Usa è dipinto come un matto, un cialtrone, un demente. Il personaggio è controverso, per molti aspetti caricaturale, ma al momento sta dando corpo alla spinta redistributiva - dovrebbe questo essere un concetto di sinistra ma i tempi sono quelli che sono - più potente degli ultimi trent'anni. Il delirio culturale degli ultimi decenni, l'alienazione post ideologica e secolarizzata, hanno fatto perdere ogni punto di riferimento. La destra fa la sinistra, la sinistra la destra, trionfa l'amorfo.
Dalla parte degli operai Usa
Donald Trump sta mantenendo fede, in maniera per molti aspetti inaspettata e brutale, alle sue promesse elettorali, che trovarono il loro apice, due anni fa, nella proposta - stravotata - dalla classe operaia della rust belt, di una vera guerra commerciale non solo contro l'Europa – poca cosa – ma contro la fabbrica del mondo globalizzato: la Cina dell'impero comunista-capitalista. Il paradiso della teorizzazione trotzkista del "lavoro combattente». Oggi, un operaio statunitense, tedesco, italiano, per essere moderno deve competere con i soldati operai cinesi, vietnamiti, indonesiani. Possono essere bambini, donne, prigionieri, schiavi, condannati a morte. Nessuno pensava che Trump si sarebbe spinto alla guerra dei dazi in essere, che trova il suo fulcro nella tassazione dei semilavorati – acciaio e alluminio in primis – nonché nella summa dei beni di consumo da esportazione: le automobili.
Tasse sulle auto dall'Europa?
In questi giorni, anche per ragioni propagandistiche – il presidente Usa deve spostare l'attenzione dai suoi vizi sessuali che lo stanno mettendo in seria difficoltà – Donald Trump ha sparato che presto arriverà una tassazione sulle automobili dall'Europa. Fa sul serio? Mossa politica per colpire prevalentemente la Germania di Angela Merkel che, in questi giorni, sta stringendo accordi poco graditi con il Cremlino di Vladimir Putin, ma soprattutto per rafforzare il legame con l'elettorato della classe media che non vuole più vedere circolare sulle strade statunitensi Mercedes, Bmw, Wolkswagen. E, in misura assai minore, anche i marchi italiani: in particolare Alfa Romeo, Ferrari e Maserati: i loghi da esportazione del gruppo italo-statunitense Fca.
Il fascismo, il fascismo!
Una guerra commerciale, quindi, porterà ad una crisi economica in Europa? Nonché ad una regressione della civiltà? Alla dittatura? Al nazismo, al fascismo, al comunismo? La risposta non è lineare come si vorrebbe. Indubbiamente l'economia europea, per volontà della Germania, è fondata sul mito dell'export. Che, come nessuno ormai può negare, ha ampiamente depresso i consumi e quindi la produzione interna. Sono esistiti tempi – quanto essi siano stati barbari ognuno lo decida – in cui il modello era esattamente opposto. E non si parla delle volgarizzazioni retoriche di questi giorni, in cui imbarazzanti megafoni dell'ideologia neoliberale inquadrano i dazi di Trump dentro la cornice mitologica della «battaglia del grano» del LVI dei lontani tempi che furono. Mai dimenticare il primato della paura se si vogliono manipolare le masse.
Chi ha perso dal «boom economico»
L'Italia, e l'Europa tutta – ed anche gli Usa – tra il 1946 e i primi anni Ottanta fondarono il loro sviluppo sul consumo interno e quindi sulla produzione interna. Indubbiamente era un altro mondo: il crollo del blocco sovietico si pone come spartiacque tra quel tempo e il nostro. Ma esistono anche profonde differenze culturali, fratture sulle dinamiche economiche che appaiono fondate sul dogmatismo. Esempio: la demonizzazione del processo inflattivo, del ruolo dello Stato, della tassazione come mezzo di redistribuzione, del debito pubblico. A rotolare come birilli colpiti in pieno dalla palla da bowling neoliberale sono stati i cardini del boom economico. Processo che, senza tema di smentita, ha messo in crisi la classe lavoratrice: operai, impiegati, commercianti, piccoli imprenditori. L'immenso esercito silenzioso che combatte ogni giorno contro gli operai combattenti asiatici, africani, est europei, sud americani. Combattono e perdono. Mai come oggi questa classe è sull'orlo dell'estinzione: e il mondo occidentale, mai come oggi, si appresta a riprodurre un'economia che ricalca fedelmente i tempi di Marco Licinio Crasso: una super classe composta da pochi oligarchi globali, circondata da una brulicante umanità, suddivisa tra schiavi e nullafacenti alienati che godono ancora della rendita creata durante i barbari tempi del dopoguerra.
Un modello economico più umano, più sostenibile
Il mito della globalizzazione, divenuto realtà, non solo sta distruggendo il lavoro in occidente, trascinando con sé il concetto stesso di senso della vita, almeno per come lo conosciamo, ma intacca l'intero ecosistema. Nel tempo più eco-propagandistico di ogni tempo, i cultori della globalizzazione non prendono minimamente in considerazione che spostare forsennatamente merci da un capo all'altro del mondo è un assurdo energetico. Eppure, il modello fondato sulla produzione interna-consumo interno, regolato fortemente dallo Stato, dava maggiore benessere ed era infinitamente più sostenibile. Il ciclo dell'economia globalizzata e fondata sul primato della moneta come unico mezzo regolatore degli scambi non è un'invenzione recente. E' appunto una ciclicità che torma a galla: l'economia dell'impero romano funzionava pressapoco come quella attuale. Al posto delle legioni oggi abbiamo le agenzie di rating e gli hedge fund che abbattono i Paesi speculando sui debiti sovrani. Quell'economia era fondata sul commercio globale. L'economia coloniale era fondata sul commercio globale. La nostra economia è fondata sul commercio globale. La caratteristica che hanno queste tre fasi storiche è la piramidalità della distribuzione della produzione primaria.
Donald cosa propone?
Fatta questa breve analisi, viene da domandarsi il senso della proposta, o propaganda, di Donald Trump. Quando il 90% delle automobili Fiat era venduto in Italia, Mirafiori aveva 60mila operai. Oggi che il gruppo Fca ambisce a vendere automobili di gamma alta in giro per il mondo, anche negli Usa ovviamente, Mirafiori ha 12mila operai. La domanda quindi è molto semplice: i dazi di Trump possono dar vita a un sistema a catena che porterà a reinvestire in un consumo interno? E quindi, ovviamente, nella produzione interna? I dazi di Trump rivaluteranno quindi il costo del lavoro in Italia, e in Europa, dando origine a una capacità d'acquisto maggiore? Domande a cui da sinistra, incredibilmente, si risponde come sconcertante fanatismo ideologico neoliberista. L'unica cosa di cui siamo certi è che trent'anni di globalizzazione hanno portato al crollo della classe media che, guarda un po', sta dando ampio respiro ai vari "populismi" che si aggirano per l'Europa.
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