24 aprile 2024
Aggiornato 12:30
Dabiq è la rivista patinata dello Stato islamico

Dal «Vanity Fair» dei jihadisti ai videogames: i media con cui l'Isis sparge l'orrore

La voglia di dotarsi di strumenti comunicativi articolati non è nuova nei jihadisti. Ma nel caso dello Stato islamico, la comunicazione ha assunto ruoli e tecniche mai visti. Ecco come l'Isis «fa il verso» all'Occidente per terrorizzarlo

ROMA - Il tempismo è perfetto, da veri strateghi del marketing e della comunicazione di massa. Giovedì scorso, a poche ore dall'operazione della polizia francese a Saint-Denis che ha ucciso il presunto organizzatore delle stragi parigine, usciva sul web l'ultimo numero della rivista «ufficiale» dello Stato islamico: Dabiq. L'intento, quello di ricordare (se ancora ce ne fosse bisogno) come l'Isis non sia uno sparuto gruppetto di estremisti, ma molto di più: uno «Stato», appunto, che l'Occidente lo conosce molto bene,al punto da saper sfruttare a proprio vantaggio alcuni meccanismi tipicamente «occidentali» - come quello legato alla comunicazione di massa - per colpire il nemico. Così, se non è «nuova» la voglia di dotarsi di un'impalcatura comunicativa articolata e multimediale per veicolare messaggi jihadisti (già vista nel caso ad esempio di Al Qaeda), nel caso dell'Isis è però «nuovo» il ruolo assegnato alla comunicazione: un ruolo sempre più centrale e determinante.

Il Vanity Fair dei jihadisti
Così, facendo concorrenza all'Inspire - magazine patinato della galassia qaidista -, il Califfato ha lanciato Dabiq, altrettanto patinato, sofisticato, redatto in diverse lingue a partire dall'inglese. Sfogliando la rivista non si può che rimanere impressionati: il periodico sembra fare il verso a Vanity Fair, ma, anziché i volti delle star di Hollywood, a far capolino da quelle pagine ci sono le storie dei jihadisti. Si rimane colpiti, in particolare, dalla «modernità» con cui questi temi vengono trattati. Non analisi dottrinali e deliranti considerazioni filosofico-religiose, ma pezzi che seguono la comune articolazione dei magazine di casa nostra: ci sono editoriali, reportage, analisi; ci sono fotografie, titoli capaci di incuriosire, didascalie. Il linguaggio, insomma, è in tutto e per tutto quello occidentale; il messaggio, invece, è fortemente anti-occidentale.

Titolo e stile
Il nome non è (ovviamente) casuale: Dabiq è infatti una piccola cittadina del nord della Siria al confine con la Turchia,  teatro, nel hadith 6924 (la raccolta dei pensieri di Maometto), della battaglia finale contro i «crociati» prima del ritorno del «Messia»: insommaretorica guerresca fondata sul conflitto tra fedeli e infedeli al massimo grado di semplificazione. Non solo: i contenuti di Dabiq sono sempre aggiornatissimi. Questo significa che Dabiq non nasce in modo casuale, ma esiste una vera e propria redazione che vaglia i contenuti, li scrive «giornalisticamente», li impagina graficamente in modo impeccabile e li pubblica in più lingue.

Lettori e temi
Dabiq è una rivista programmatica, che si rivolge a un target preciso. Non jihadisti convinti, ma persone interessate ai temi dell'islam politico. È un lettore cui, con grande abilità, vengono spiegate passo passo le ragioni, il senso e la progettualità del Califfato. Una messaggio esplosivo per chi è già avviato sulla strada del jihad, «d’ispirazione» anche per chi sia attraversato dal dubbio. Non è un caso che il primo numero sia del 5 luglio 2014: passato un mese dalla conquista di Mosul, il titolo di copertina è assolutamente evocativo: «Il ritorno del califfato». L'apice della propaganda dell'orrore viene raggiunto l'11 febbraio 2015, quando esce il numero dedicato alla rivendicazione dell’attacco a Charlie Hebdo. A dominare, il racconto dei due jihadisti belgi sfuggiti ai servizi segreti di tutta Europa e la giustificazione religiosa della decisione di mandare al rogo Muadh, il pilota giordano. Un apice toccato, in verità, anche nell'ultimo numero, il dodicesimo: il messaggio è affidato all'ostaggio John Cantlie, giornalista britannico catturato nel novembre 2012 insieme al collega John Foley. Cantlie, dal suo rapimento, è costretto a fare propaganda per l'Isis, usando la sua professionalità di giornalista occidentale a servizio del grande «nemico» dell'Occidente. Già nel numero 8, aveva firmato un articolo contestando la scelta dei media occidentali di descrivere lo Stato islamico come «un'organizzazione», anziché come «entità reale e funzionante». Un'organizzazione rispetto alla quale - si diceva - i Paesi occidentali dovrebbero considerare «l'opportunità» della «tregua»: ecco, in quel caso, la prima apertura «diplomatica» del Califfato. Questa volta, il messaggio è ancora più brutale, ed è ben sintetizzato dal titolo del numero che campeggia sulle foto degli attentati di Parigi: «Just Terror», «Semplicemente terrore».

Isis 2.0
Ma Dabiq è solo la punta dell'iceberg di un meccanismo mediatico ben più complesso e multimediale. Nessun gruppo jihadista ha saputo usare meglio i social - soprattutto Facebook e Twitter - per diffondere il proprio messaggio e reclutare foreign fighters. La potenza della comunicazione nel processo di radicalizzazione è assolutamente pervasiva, e sfida apertamente i meccanismi di oscuramento utilizzati dai social stessi per combattere tali fenomeni: una vera e propria guerra virtuale. Non è un caso che, a partire dal 2015, l'Isis abbia annunciato il lancio di un proprio servizio di chat e messaggistica privato per garantire «privacy» ai propri utenti. Ma i social non sono gli unici strumenti di «narrazione» del messaggio jihadista: ad andare per la maggiore anche i video, in particolare quelli che attestano l'orrore delle decapitazioni e delle esecuzioni degli ostaggi. Video dal montaggio quasi «holliwoodiano», intrisi di contaminazione simbolica, ma allo stesso tempo facilmente fruibili da chiunque.Il rituale è quasi sempre mostrato dall'inizio alla fine come distintivo del Califfato, gli strumenti di morte qualche volta diversificati da coltelli ad asce, l'obiettivo chiarissimo: quello di togliere, almeno apparentemente, qualsiasi intermediazione alla barbarie e al terrore. In realtà, l'intermediazione esiste, vista l'assoluta mancanza di casualità nel montaggio e nella «sceneggiatura». Eppure, l'immedesimazione è impossibile da evitare. Ma non basta: l'Isis sfrutta addirittura la «ludicizzazione» per diffondere il suo messaggio. E' il caso del videogioco «Grand Theft Auto: Salil alSawarim», uscito dopo il trailer «Flames of War» dal finale aperto. La prima release di «Grand Theft Auto» (Gta) esce nel 1997 per playstation e altre piattaforme,conquistando nel 2004 30 milioni di giocatori. L'Isis ha saputo sfruttare questo successo, personalizzando il gioco rispetto ai propri fini: il brand è lo stesso, ma al centro delle avventure non è la carriera di grande ladro d’auto, ma a quella del jihadista. Ogni limite etico è rotto. Nelle prime ventiquattro ore di pubblicazione su YouTube, il video di lancio è stato visto da circa 57.000 persone, con una permanenza media per visitatore di 17 minuti sul trailer, complessivamente lungo circa un’ora. Non poteva mancare, a questo punto, una web TV per realizzare al meglio la strategia della convergenza: dal 20 di gennaio scorso, inizia a circolare un breve filmato promozionale che lancia Khilafalive. Il palinsesto riprende protagonisti e temi dell’intero impianto mediatico dell'Isis: Cantlie con i suoi reportage, rubriche finalizzate al reclutamento e al training, notizie sulla vita del Califfato.

La comunicazione del paradosso
Il paradosso è servito su un piatto d'argento: il primo nemico dell'Occidente, che propone modelli di vita totalmente antipodici e fa del terrore la propria parola d'ordine, utilizza i medesimi strumenti e le stesse tecniche occidentali per diffondere un verbo che l'Occidente ripudia. Ma è forse per questo che fa tanto paura: perché così facendo svela una consapevolezza analitica del nostro mondo, e ci induce a pensare che, conoscendoci così profondamente, sarà ancora più terribilmente efficace nel colpirci...