20 aprile 2024
Aggiornato 14:30
Ma la situazione umanitaria si complica

Siria, Usa: pronti a mandare truppe per addestrare le forze anti-Isis

Secondo il il segretario Usa alla Difesa Ashton Carter, gli Stati uniti potrebbero dispiegare delle truppe in Siria per combattere lo Stato islamico (Isis), se Washington dovesse trovare ulteriori forze locali desiderose e capaci di combattere contro i jihadisti

ALEPPO - Gli Stati uniti potrebbero dispiegare delle truppe in Siria per combattere lo Stato islamico (Isis), se Washington dovesse trovare ulteriori forze locali desiderose e capaci di combattere contro i jihadisti. L'ha dichiarato il segretario Usa alla Difesa Ashton Carter. Intervistato dalla rete televisiva ABC, Carter ha confermato che gli Usa potrebbero inviare soldati in Siria dicendo: «Assolutamente». Poi ha aggiunto: «E' importante che noi trasmettiamo il peso del nostro know-how alle forze locali che vivono nella regione in modo che, quando avremo sconfitto l'Isis, possano ristabilire una vita normale e gli americani possano tornare a casa loro».

Diffondere il nostro know-how
Il capo del Pentagono, poi, ha proseguito: «Li aiuteremo, i combattenti contro l'Isis, e vedremo. Se il loro numero cresce...e se troviamo più gruppi desiderosi di combattere contro i jihadisti, che siano capaci e motivati, faremo allora di più per aiutarli». Carter ha ricordato che il presidente Barack Obama «ha indicato la volontà di fare di più e sono certamente pronto a raccomandargli di fare di più, ma bisogna che ci siano forze locali capaci di affrontare lo Stato islamico e questa è la chiave di una vittoria durevole».

Teheran: serve lista dei gruppi terroristici
La prossima riunione di Vienna sulla Siria dovrà definire prioritariamente la lista dei gruppi terroristici, ha dichiarato il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif. L'incontro, il secondo a cui parteciperà l'Iran, è previsto per il 14 novembre, secondo il ministero degli Esteri russo, come scrive Interfax che riporta la partecipazione ancora in forse del ministro Sergey Lavrov. «Ci sono due punti importanti all'ordine del giorno della prossima riunione dei Vienna, prima di tutto determinare quali sono i gruppi terroristici, cosa che ci è chiara. E in seguito raggiungere un accordo sul metodo per proseguire il lavoro», ha dichiarato Zarif nel corso di una conferenza stampa congiunta con l'omologo belga Didier Reynders, in visita a Téhéran. L'Iran è il principale alleato del regime siriano e la decisione di prendere parte alla riunione di fine ottobre a Vienna è stata valutata come un passo fondamentale nella risoluzione della crisi. Alla riunione interministeriale di Vienna hanno preso parte 17 Paesi tra cui la Russia, gli Stati Uniti, la Francia, l'Italia, l'Arabia Saudita e per la prima volta l'Iran, appunto. Zarif ha precisato che non è ancora chiaro a che livello sarà presente Teheran.

Bombardamenti
Intanto, proseguono i bombardamenti.  L'aviazione francese ha bombardato un centro di approvvigionamento petrolifero dello Stato islamico (Isis) nei pressi di Deir Ezzor, nella Siria orientale. Lo ha annunciato oggi il ministro della Difesa Jean-Yves Le Drian. «In Siria siamo intervenuti ieri sera con un attacco su un centro di approvvigionamento petrolifero nei dintorni di Deir Ezzor al confine fra l'Iraq e la Siria», ha dichiarato nel corso di un incontro con la stampa a margine del Forum internazionale di Dakar sulla pace e la sicurezza in Africa.

L'appello di Save The Children
In tale scenario, la situazione umanitaria è sempre più complessa. Se davvero la comunità internazionale intende affrontare il dramma dei rifugiati siriani e affrontare la più grande crisi umanitaria dalla II Guerra Mondiale, deve trovare un accordo ben più ambizioso. E' quanto chiedono insieme con forza sette maggiori organizzazioni umanitarie internazionali, tra cui Save the Children, l'organizzazione dedicata dal 1919 a salvare i bambini e tutelarne i diritti, che hanno diffuso oggi il briefing congiunto «Right To A Future - Empowering refugees from Syria and host governments to face a long term crisis». In mancanza di una previsione della fine del conflitto e senza alcuna prospettiva per i rifugiati di far ritorno a casa, il nuovo accordo deve prevedere maggiori investimenti nei paesi vicino la Siria che ospitano oltre 4 milioni di rifugiati e mettere fine alle restrizioni che impediscono ai rifugiati di lavorare e, in alcuni casi, di vivere legalmente. Allo stesso tempo deve proteggere e rafforzare il loro diritto a chiedere asilo.

Quale futuro per i rifugiati?
«Molti rifugiati sono attualmente condannati a vivere una vita in condizioni di precaria legalità, con una varietà di restrizioni che li costringe ad una costante paura di essere arrestati, detenuti, deportati», dichiara Jan Egeland, Segretario Generale del Consiglio Norvegese per i Rifugiati. «Le condizioni di vita sono drammaticamente deteriorate e costringono i rifugiati ad adottare misure estreme per poter sopravvivere, incluso il ritorno nelle zone di guerra da cui sono fuggiti o a rischiare le proprie vite per raggiungere l'Europa. Abbiamo bisogno che i paesi ospitanti diano ai rifugiati l'opportunità di vivere vite dignitose e di poter dare il loro contributo alle comunità che li accolgono». Le organizzazioni umanitarie ritengono che sia necessario un approccio nuovo e di lungo termine. Con il giusto aiuto da parte dei donatori internazionali, i paesi confinanti con la Siria potrebbero realizzare politiche che consentano ai rifugiati di sostenersi economicamente senza rischiare di essere arrestati e di contribuire all'economia delle comunità che li ospitano.

Storie drammatiche
Incapaci pagare l'affitto o il cibo, e dipendendo dagli aiuti umanitari sempre più scarsi, i rifugiati vengono risucchiati in una spirale di povertà e di debiti. Circa il 70% dei rifugiati in Libano non possiede documenti per restare legalmente nel paese e molti dei rifugiati fuori dai campi in Giordania, non avendo documenti validi, lottano per ottenere servizi sanitari, di cura e di istruzione. «Rischiamo di perdere un'intera generazione di giovani siriani, la stessa generazione che poi dovrebbe ricostruire il Paese quando il conflitto finalmente terminerà. Con adulti incapaci di guadagnarsi da vivere, sempre più bambini saranno costretti a lavorare. Centinaia di migliaia di minori stanno perdendo anni di istruzione perché i sistemi scolastici dei paesi confinanti sono al collasso», commenta Misty Buswell, Regional Advocacy Director di Save the Children. «Da oltre 4 anni i rifugiati stanno vivendo alla giornata, contando sugli aiuti umanitari e senza sapere se e da dove arriverà il prossimo pasto», racconta Winnie Byanyima, Direttore Esecutivo di Oxfam. «Spesso incontriamo, tra gli altri, falegnami esperti, agricoltori e insegnanti che lottano per mantenere un tetto sopra la testa e cercano di mettere insieme i soldi per pagare l'affitto. Dovrebbero poter usare le proprie competenze per sostenere le proprie famiglie e per dare il loro contributo ai paesi che li ospitano. Dei nuovi posti di lavoro potrebbero beneficiare anche i milioni di giordani, libanesi, turchi e iracheni che si trovano ad affrontare questa crisi».

Opportunità
«La comunità internazionale si deve rendere conto che, piuttosto che un fardello, come spesso i rifugiati vengono descritti, la realtà è ben diversa: i rifugiati che sono messi nelle condizioni di lavorare legalmente, possono contribuire positivamente alle economie dei paesi ospitanti con le loro diverse abilità ed esperienze», ha aggiunto Peter Klanso, Direttore del Consiglio Danese per i Rifugiati per il Medio Oriente e il Nord Africa. Tuttavia, anche con i giusti investimenti e le giuste politiche, i rifugiati più vulnerabili avranno bisogno di asilo fuori dalla regione. I paesi ricchi dovrebbero fornire un'opzione di reinsediamento in sicurezza per almeno il 10% dei rifugiati che ne hanno maggiormente bisogno e invece si sono impegnati finora ad accettarne meno del 3% e i tempi di attesa sono troppo lunghi. 

La situazione in Libano, Giordania, Turchia, Iraq ed Egitto  
Il Libano ospita più di un milione di rifugiati, il 30% della popolazione, di cui quasi 500.000 bambini in età scolare. Dal gennaio 2015 ha di fatto chiuso il proprio confine per i nuovi rifugiati. Coloro che desiderano ottenere la residenza devono firmare l'impegno a non lavorare e a non sollecitare l'aiuto di un cittadino libanese. Centinaia di migliaia di persone sono di fronte a una scelta: rinunciare alla propria capacità di lavoro o vivere senza un permesso di soggiorno valido con tutti i rischi che ciò comporta. In Giordania, oltre l'83% dei suoi oltre 630.000 rifugiati siriani vive fuori dei campi, nelle città. Circa il 48% dei rifugiati siriani che vivono in comunità ospitanti non hanno lasciato i campi utilizzando il permesso e si trovano ad affrontare problemi per rimanere registrati, accedere ai servizi e all'assistenza umanitaria, registrare nascite, morti e matrimoni. Il 99% dei rifugiati che riescono a trovare lavoro, lavorano in nero e in condizioni di sfruttamento. In Turchia, che ospita circa 2 milioni di rifugiati siriani, alcune città hanno visto le loro popolazioni raddoppiare. I rifugiati, quando arrivano, ottengono i servizi di base ma, a meno che non si tratti di ricongiungimenti familiari o per ragioni mediche, non sono in grado di muoversi verso le aree urbane in cui sono disponibili posti di lavoro. Circa 600.000 rifugiati siriani restano non registrati e non possono usare ufficialmente la maggior parte dei servizi pubblici. Molti non sono in grado di lavorare legalmente e finiscono nell'economia in nero, spesso in condizioni di sfruttamento. Nella regione curda dell'Iraq, i rifugiati nei campi possono ottenere permessi di soggiorno che consentano loro di lavorare e accedere ai servizi, servizi che invece sono difficili da ottenere per i rifugiati al di fuori campi. Altrove in Iraq, i rifugiati nei campi non possono lavorare. In Egitto ci sono quasi 130.000 profughi siriani registrati anche se il governo ne stima il doppio. Solo una piccola parte dei rifugiati è stata in grado di ottenere permessi di lavoro a causa delle quote che limitano l'ingresso di non-egiziani nel mondo del lavoro.

(Con fonte Askanews)