19 aprile 2024
Aggiornato 15:00
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Il Papa in Terra Santa, pace e dialogo con Ebrei e Musulmani

Per Benedetto XVI altra «kefiah», Abdullah II ricorda «occupazione»

AMMAN - La Chiesa è una «forza spirituale» e non un «potere politico», ma la politica, nel viaggio di Papa Benedetto XVI in Terra Santa, riappare di continuo. Assume forme diverse - una `kefiah' che viene posta, tra gli applausi, sulle spalle dell'anziano pontefice tedesco, la denuncia della «occupazione» subita dai palestinesi, pronunciata dal re giordano Abdullah II - ma rimanda sempre e inevitabilmente al conflitto israelo-palestinese.

Benedetto XVI è consapevole di muoversi in quella che il custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa, ha definito una «cristalleria» e - affiancato dai suoi più stretti collaboratori, Bertone, Lombardi, Mamberti - risponde con cautela ai giornalisti che lo accompagnano sul volo Roma-Amman. «Noi non siamo un potere politico ma una forza spirituale», premette. Una realtà che può «contribuire» alla pace, spiega, con la «vera forza» della preghiera per risolvere i conflitti, la «formazione delle coscienze» e - da ultimo - la vocazione che ha la Chiesa di prescindere dagli «interessi particolari» e, «anche alla luce della fede», individuare e «appoggiare» le «posizioni realmente ragionevoli». Parole che escludono gli estremismi dell'una e dell'altra parte, ma evitano accuratamente di entrare maggiormente nei dettagli. Quando i cronisti domandano un commento sulla situazione dei cristiani della Terra Santa e citano quelli di Gaza, il Papa glissa sull'ultima parte della questione e ammette che il momento è «difficile», ma c'è anche «speranza di un nuovo inizio, di un nuovo slancio per la pace». Di «pace durevole e vera giustizia» per il Medio Oriente parla appena sceso dall'aereo, nell'hangar dell'aeroporto Queen Alia e nel pomeriggio, prima di recarsi in visita al palazzo reale in visita di cortesia, sottolinea che la «pace durevole» - per Gerusalemme, per la Terra Santa e per il mondo intero - è «generata dalla giustizia, dall'integrità e dalla compassione». Indicazioni tanto nette quanto generali. Ad ogni modo - spiega - «diversamente dai pellegrini d'un tempo, io non vengo portando regali od offerte», ma «semplicemente con un'intenzione, una speranza»: il «regalo prezioso» della pace per il Medio Oriente.

Ratzinger tiene all'aspetto pastorale e religioso della sua visita. Appena sceso dall'aereo afferma, senza esitazione: «La mia visita in Giordania mi offre la gradita opportunità di esprimere il mio profondo rispetto per la comunità musulmana, e di rendere omaggio al ruolo di guida svolto da Sua Maestà il Re nel promuovere una migliore comprensione delle virtù proclamate dall'islam». Anche con gli ebrei - aveva spiegato a bordo dell'aereo - ci sono «comuni radici», anche se «naturalmente, dopo duemila anni di storie distinte, anzi separate, non è da meravigliarsi che ci siano malintesi».

Il dialogo sia con l'ebraismo, che con l'islam, che `triangolare', per Benedetto XVI, è «importante». Gli fa eco il re Abdullah. Che, accompagnato dalla giovane moglie Rania, lo accoglie - fatto straordinario per il protocollo della corte hashemita - sulla piazzola dell'aeroporto. Il suo discorso - fatto straordinario per i giornalisti che seguono il Papa - viene distribuito anche con la traduzione in latino. Segno di un riguardo speciale che il regnante che discende dal profeta Maometto tributa al Papa che indignò il mondo musulmano con il discorso di Ratisbona. Il sovrano hashemita riconosce, invece, l'impegno del Papa a «combattere pregiudizi e divisioni che hanno arrecato tante sofferenze a cristiani e musulmani» ed esprime la speranza di diffondere «assieme» il dialogo avviato tra Santa Sede e islam - un dialogo, precisa con parole nelle corde di Ratzinger - «che non teme la luce della verità» e che «giustamente, celebra i nostri valori, i nostri legami comuni e profondi».

Un lungo discorso sui temi dello spirito, che però, nella chiusa, martella senza giri di parole sui temi politici. «Qui e altrove - dice - aiutiamo a creare un vicinato di pace dove ogni famiglia possa godere la benedizione della sicurezza, dove nessun bambino sia abbandonato alla violenza e alla distruzione, dove tutte le comunità conosceranno il potere della riconciliazione e dove - ha aggiunto con riferimento palese ad Israele - il popolo palestinese vedrà la fine dell'occupazione e della sofferenza e condivida alla giusta dignità della libertà». Non passa neanche un'ora, e il Papa, in visita al centro per disabili `Our Lady Queen of Peace', si trova sulle spalle una `kefiah' a scacconi rossi e bianchi, indumento tradizionale arabo e copricapo dei movimenti per la liberazione della Palestina. Quando due giovani cristiani di Betlemme gli avevano fatto un simile regalo ad un'udienza in Vaticano, le autorità israeliane l'avevano considerata una «provocazione», parte di una «campagna» ostile alla visita del Papa orchestrata dai cristiani arabi timorosi che la sua visita in questo momento - a pochi mesi dall'attacco di Gaza, mentre nel nuovo Governo entrano ultranazionalisti come Avigdor Lieberman - si traduca in una benedizione per Israele. E nello Stato ebraico, intanto, c'è chi torna all'attacco chiedendo al Papa di condannare - per l'ennesima volta - il negazionismo e ci si interroga su cosa dirà Benedetto XVI quando visiterà il memoriale della Shoah dello Yad Vashem, lunedì prossimo. Dibattiti politici di un pellegrinaggio che non può rimanere solo spirituale.