20 aprile 2024
Aggiornato 04:30
Apre con il fiato sospeso l’esposizione Universale di Milano

L’Expo del lavoro, del cibo e dei lacrimogeni

L’Italia fa fatica a trovare un momento di riscatto o di festa. Si tratti del made in Italy o di un derby calcistico. Con una disoccupazione giovanile al 43 per cento, non c’ è da meravigliarsi se prevale la protesta. Ma fra i tanti nemici c’è anche da contrastare chi vuole abbattere ogni segno di speranza.

MILANO - L’Italia è un paese industrializzato, le fabbriche sono ancora l’ossatura di questo paese. Il lavoro (quando c’è)  viene dalle imprese, dall’agricoltura, dal settore dei servizi (pubblico e privato), dal commercio, dall’artigianato. L’Expo serve a far vedere per sei mesi al resto del mondo cosa sanno fare gli italiani, Così come è sempre stato, a partire da uno dei più celebrati Expo, quello che regalò a Parigi la Torre Eiffel e la magia di una città illuminata dall’elettricità che di lì a poco avrebbe sostituito dovunque i lumi a petrolio. Questa in sintesi è la fotografia del sistema in cui, nel bene o nel male, vivono gli italiani. Con la postilla su che cosa rappresenta per l’Italia quell’ Esposizione Universale che ha aperto i battenti fra i fumi dei lacrimogeni, con tanti saluti per chi invece si aspettava i fuochi di artificio.

LE MILLE FORMULE DEL ‘900 - Dunque è in questa dimensione che siamo chiamati a muoverci. Non è detto, però che il «pacco» debba piacere a tutti. E chi non gradisce può rivendicare il cambiamento. Inoltre il sistema in cui viviamo, con tutti i suoi difetti, consente a tutti i cittadini, fin dalla giovane età, di essere bene informati sull’ampia gamma di modelli che il pianeta ha avuto modo di sperimentare nell’arco di oltre un secolo. La varietà di questi quadri alternativi, per restare agli ultimi cento anni, va dal colonialismo, al nazionalismo, al socialismo, al fascismo, al comunismo, al nazismo, alla socialdemocrazia, al liberismo. Passando per varie forme di monarchie e di repubbliche e per varie formule di tirannia o di democrazia. Può , però, darsi il caso che la maggior parte, o tutti, questi sistemi di organizzazione sociale ampiamente messi alla prova nel ‘900 sopra elencati (salvo possibili omissioni) non siano ritenuti in grado di rispondere alle aspettative del terzo millennio. Questo è possibile, ed anche lecito. Ma in questo caso l’unica soluzione onesta a cui affidare le attese deluse dagli schemi già saggiati è seguire la strada di chi in passato si è trovato davanti agli stessi enigmi. I nostri predecessori davanti alla necessità di abbattere il vecchio, prima durante e dopo essere passati all’azione, hanno impegnato tutte le loro energie intellettuali per indicare le scene che dovevano essere eliminate e indicato, a volte fino ai minimi particolari, i nuovi scenari a cui andavano incontro i concittadini ai quali proponevano un futuro migliore.

IL MENÙ DI HITLER - Perfino Hitler si prese la briga di scrivere in un libro, per filo e per segno, che cosa si accingeva a fare. E peggio per chi sottovalutò il veleno che c’era nel rancio che si proponeva di cucinare il «caporale». Resta il fatto che chi gustò per anni quella minestra sapeva bene con quali ingredienti era stata preparata. Insomma anche Hitler ebbe il garbo di mettere al corrente il popolo a cui si rivolgeva.

LA SOCIETÀ DEI CASCHI INTEGRALI - Ora qualcuno è in grado di spiegare, quale progetto, quale società, quale alternativa, propongono questi giovanotti venuti addirittura da altri paesi per impedire che il mondo guardi all’Italia come un paese che sta cercando di rimettersi in piedi? Tralasciamo pure di sottolineare il non indifferente particolare che la loro provenienza, in alcuni casi, è la Germania. E che probabilmente nel tascapane, fra le molotov, avranno con se anche il certificato che gli consente di ricevere un sussidio statale più pingue del misero stipendio dei poliziotti oggetto del loro tiro a segno. Resta il fatto che dietro i caschi integrali e i fazzoletti che coprono il loro volto, non sappiamo nulla di loro. Non sappiamo soprattutto cosa vogliono.

I NEMICI DEL LARDO DI COLONNATA - Non vogliono il made in Italy? Non vogliono il lardo di Colonnata, il provolone della costiera amalfitana, le olive ascolane? Non vogliono che si parli di alimentazione? Di come insegnare, a chi ne ha troppa, a non sprecare il cibo? Di come farlo arrivare a chi non ne ha? E’ vero c’ è il rischio che per parlare di fame nel mondo si finisca per farlo in una cornice di archistar, di vallette sottopagate, di politici dalle tasche gonfie di vitalizi o di mazzette. Ma quale è il piano B di chi getta il fango sul lavoro italiano? Spostare tutto nel Sudan, nello Yemen, in Libia dove la fame, ormai, si confonde con il sangue e l’odio? O nelle zone dell’Africa dalle quali fuggono i disperati che salgono sui barconi?

UN DEMONE CHIAMATO MULTINAZIONALE - Mettiamo che i sabotatori abbiano ragione. Che tutti mali della terra abbiano una sola origine, l’egoismo delle multinazionali. Se così fosse, sfasciare ogni cosa in modo lineare, si può pensare veramente che possa dare dei risultati per contrastare il «disegno demoniaco delle multinazionali»? Il risultato di chi cade in questo abbaglio è sotto gli occhi di tutti ed è uno solo: tutto il mondo invece che guardare all’alimentazione, ai grandi cuochi, ma anche alla fame nel pianeta, attraverso il rilancio dei media, vede unicamente un cieco desiderio di devastazione. Tutto il mondo, soprattutto quello che i devastatori vogliono abbattere, avrà quindi una ragione di più per impegnare le proprie forze nel condannare quella violenza. Si metterà a posto la coscienza e riuscirà a non far giungere alle proprie orecchie il benché minimo anelito di giustizia, anche se confezionato nella carta patinata di un Expo. Un trucchetto di questo genere l’Italia lo ha già conosciuto. Si chiamava strategia della tensione e serviva affinché nulla cambiasse. E infatti nulla è cambiato.