20 aprile 2024
Aggiornato 02:00
Industria automobilistica

Fabbrica Italia? No grazie

Federauto: «La miopia di chi non vede il piano di produzione industriale di Fiat come la manna dal cielo»

ROMA – «In Europa Occidentale produrre non conviene più. Questo è la madre di tutti i problemi.» Comincia così Filippo Pavan Bernacchi, presidente della neonata Federauto, l'associazione dei concessionari d'auto di tutti i brand commercializzati in Italia. «I fattori sono molteplici. Prima di tutto vi è il costo del lavoro; se paragonato a quello di Cina e India, non c'è match. Battuti in partenza. Ma anche verso i paesi dell'Europa dell'Est, o della ex-Jugoslavia, c'è un abisso. Poi c'è l'aspetto della produttività. Quei popoli hanno fame, anche di lavorare, per cui nel lavoro ci mettono l'anima e sono disponibili a sacrifici su turni notturni o festivi. Come noi nel dopoguerra, per intenderci. Si passa poi agli aspetti sindacali. I sindacati, da noi, sono stati importantissimi in passato per tutelare i lavoratori che non beneficiavano neppure dei diritti elementari. Ora però si invertito il rapporto di forza. I lavoratori sono iper-tutelati e licenziare qualcuno quando l'azienda naviga in cattive acque, o che: rema contro, non produce, si dà malato strumentalmente... è quasi impossibile. E se un imprenditore ci prova il giudice del lavoro, molto spesso, reintegra il dipendente nel suo ruolo comminando all'azienda pesanti sanzioni. Si aggiunga l'estrema facilità con cui si può venire in possesso di un certificato medico che esime il beneficiario dal presentarsi al lavoro e il gioco è fatto. D'altronde questo è il Paese dei falsi invalidi. Poi ci sono le regole per la sicurezza sul lavoro e contro l'inquinamento. Sono sacrosante, ma in un mondo globalizzato o le adottano tutti i paesi, affrontandone i costi - che poi fanno salire i prezzi dei prodotti - oppure chi le applica è tagliato fuori dal Mercato. E quindi molte leggi dovrebbero essere paradossalmente adottate a livello mondiale: tutela lavoratori, tutela ambiente, orario settimanale, straordinari, cuneo fiscale, lavoro minorile, donne e maternità. Solo così si potrebbe competere ad armi pari. Utopia, certo, ma così stanno le cose.«

Il numero uno dei concessionari italiani, categoria che ha in mano il rapporto con i Clienti sia per la vendita delle vetture e dei ricambi sia per l'assistenza, continua: «E così le aziende produttrici che vogliono sopravvivere in questo mercato competitivo devono delocalizzare. Si chiudono le fabbriche in Italia, licenziando centinaia di migliaia di lavoratori, e si riaprono in Polonia, Slovenia o, perché no, in Cina o Romania. Quei paesi fanno ponti d'oro alle imprese perché gli insediamenti produttivi portano benessere e danno posti di lavoro. E quindi via agli sgravi fiscali, ad aiuti di stato, a contratti per i lavoratori «light», a occhi chiusi su molti aspetti, e chi più ne ha più ne metta.«

Pavan Bernacchi continua: «In questo contesto arriva un «pazzo» vero, di nome fa Sergio Marchionne. Cosa vorrebbe fare costui? Potenziare la produzione del Gruppo Fiat in Italia! Controtendenza rispetto a quasi tutte le aziende che se ne vanno bellamente all'estero. Certo, vuole anche chiudere degli stabilimenti. Ma che matrice hanno certe fabbriche? Sono state insediate per soddisfare logiche industriali o «politiche»? La risposta è la seconda. Si pensi solo ai costi logistici e di trasporto. Certo, la Fiat in passato è stata aiutata tantissimo dai Governi in carica. Come pure tutti i produttori esteri nei mercati domestici. Ma ora che lo Stato si è sfilato non ci si meravigli se Marchionne, calcolatrice alla mano, spiega che non conviene e che si deve chiudere. Non dimentichiamo anche che al Sud operano le varie mafie, e che non è pensabile che queste si fermino fuori dai cancelli degli stabilimenti. Un altro grosso problema per chi vuole fare impresa.«

Il presidente di Federauto conclude: «Ecco perché Marchionne è un «pazzo» vero. Ma come, quasi tutti i produttori, dal tessile alla componentistica, sognano di lasciare il sacro suolo, e lui cosa vorrebbe fare? Investire una valanga di milioni di euro in Italia, potenziare gli stabilimenti, aumentare la produttività. Certo, chiede anche sacrifici (remunerati) ai lavoratori, e un nuovo approccio al bene primario e irrinunciabile che è il Lavoro. No, è troppo. Certi sindacati preferiscono non considerare che il mondo non è più quello di tre anni fa. Allora meglio contratti d'acciaio, blindati, tutelatissimi, intoccabili, nei secoli dei secoli. Peccato che ne beneficeranno sempre meno dipendenti perché gli imprenditori che possono, da qualche anno, se ne vanno all'estero. Quelli che non falliscono, ben inteso. E quindi propongo di cambiare l'articolo 1 della Costituzione da: «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro» in : «L'Italia è una Repubblica democratica, un tempo fondata sul lavoro».

E una domanda sorge spontanea: «Ma se nessuno lavorerà, venendo meno la capacità di spesa e la propensione all'acquisto delle famiglie, come sopravvivrà la nostra economia?«