28 agosto 2025
Aggiornato 07:30
Editoriale

Sacconi “bisogna cambiare lo statuto dei lavoratori”

Per il ministro vanno conservati i diritti essenziali, ma va cambiato tutto il resto

Se il ministro Sacconi voleva guastare la festa ai lavoratori c’è riuscito. Alla vigilia del primo maggio in una intervista pubblica su Libero ha annunciato che intende cambiare lo Statuto dei lavoratori.
Lasceremo intatte le tutele essenziali, ma cambieremo tutto il resto. Questa è in sostanza la strategia del ministro. Ha tre anni per portala avanti e chi conosce la sua tenacia ha la certezza che Sacconi farà di tutto per vincere questa partita.

Il compito che aspetta Maurizio Sacconi è fra i più difficili da affrontare.
Il crinale sul quale ci si muove quando si tratta di organizzazione del lavoro è fra i più delicati. Né si può dimenticare che è alla vita di due giuslavoristi come Biagi e D’Antona che hanno puntato le due ultime imprese criminali delle brigate rosse quando hanno tentato di ripresentarsi sulla scena italiana.
Quando il precedente governo Berlusconi mise le mani sull’articolo 18 per Cofferati, allora leader della Cgil, fu uno scherzo portare tre milioni di lavoratori a Roma.
Lo Statuto dei lavorati non bisogna dimenticarlo è stato una grande conquista degli italiani ed è stato utile anche alla costruzione di un sistema industriale che puntasse all’efficienza e alla competitività e non allo sfruttamento del lavoro.
La dialettica su dove finiscono i diritti e cominciano le barriere allo sviluppo fa parte della storia delle relazioni industriali del nostro Paese ed è stato il terreno di scontro non solo fra sindacati e Confindustria, ma anche fra le diverse anime della sinistra.
Maurizio Sacconi viene dal mondo dei socialisti. Da quella schiera di uomini politici, cioè, che Craxi capeggiò con l’obiettivo di rompere l’immobilismo dei comunisti.
Ridotta all’osso la questione è se al mondo del lavoro convenga di più conservare dei diritti che con il tempo possono dimostrarsi di impedimento allo sviluppo e quindi ai loro stessi interessi, o rimettere in discussione ciò che si è acquisito nel tempo, in nome di una crescita del bene comune che una volta conquista si riverberi nuovamente su chi ha contribuito a determinarla.

«Il Piano triennale per il lavoro, prima di tutto deve promuovere la formazione di quelle competenze che servono alla crescita. In secondo luogo deve garantire alta intensità occupazione alla crescita economica e cioè, a parità di crescita, più posti di lavoro. Quanto allo Statuto dei lavoratori, oggi possiamo pensare ad una regolazione di legge molto più essenziale, riferita ai diritti fondamentali nel lavoro, che devono essere riconosciuti a tutte le persone, per rinviare alle parti sociali, alla loro capacità di reciproco adattamento nei diversi contesti territoriali, settoriali, aziendali, la regolazione nei rapporti di lavoro di molte tutele», ha spiegato il ministro nella sua intervista a Libero.
In sostanza Sacconi vuole togliere al lavoro l’ingessatura di norme che non tengono conto delle variabili e delle fluttuazioni dell’economia e quindi delle condizioni in cui si deve muovere la produzione. Il precariato introdotto dalla legge Biagi, da questo punto di vista deve essere visto come un mostro che divora il futuro dei giovani o un viatico, una camera di compensazione per facilitare e non impedire l’ingresso dei nuovi nel mondo del lavoro?
E’ chiaro che se il precariato è eterno e si risolve in una scappatoia per pagare di meno il lavoro è un danno non solo per chi lo subisce, ma anche per chi ne approfitta. Il lavoro a basso costo, produce un beneficio immediato alle aziende, ma induce gli imprenditori alla pigrizia, ad adattarsi ad una situazione di comodo che con il tempo si traduce in un boomerang. La concorrenza dei paesi emergenti oggi non consente che per tempi brevissimi una presenza sul mercato al ribasso. I Paesi dell’Est, i paesi asiatici su questo terreno sono imbattibili. Quindi per restare in piedi bisogna puntare sul valore aggiunto, sull’innovazione, sul continuo rinnovamento delle tecnologie.
La flessibilità, che spesso si traduce in precariato, può essere invece uno strumento essenziale nelle fasi di transizione, al momento della partenza di una impresa, quando subisce un periodo di crisi. Poi però deve lasciare il posto a traguardi più stabili, all’obiettivo di offrire al mondo del lavoro uno sbocco che si chiami futuro e ai giovani di guardare al domani senza avere la sensazione di affacciarsi su un buco nero.
La scommessa di Sacconi è tutta qui.