26 aprile 2024
Aggiornato 21:30

Bankitalia: Al Sud crolla il Pil per abitante

Intanto fuggono i giovani laureati e la criminalità condiziona il mercato

Alla mancanza di risorse, secondo un sondaggio del Censis, va attribuita una quota minima delle cause che frenano lo sviluppo del Sud, appena il 6,4 per cento.
Sempre secondo lo stesso sondaggio, la diffusione di logiche clientelari è invece il maggior impedimento alla crescita delle regioni meridionali.
Le conclusioni del Censis sintetizzano una situazione che può essere tradotta così: di soldi al Sud ne arrivano a sufficienza, il problema è che non si sa dove vanno a finire.
Il perché sia difficile, o addirittura impossibile, ricostruire il percorso dei finanziamenti pubblici una volta che hanno preso la strada del Mezzogiorno lo spiega invece un dato che vale più di cento analisi sulla questione meridionale: il sistema degli incentivi al Sud conta 1300 forme di aiuto, di cui più di 1200 fanno capo ad amministratori regionali e vengono erogati, per la maggior parte, a fondo perduto. Risultato, il Pil per abitante è inferiore al 60 per cento di quello delle regioni settentrionali.

«Da tempo stiamo dicendo basta agli aiuti a pioggia, ai contributi a fondo perduto che possono distorcere il mercato ed essere fonte di clientelismo», si lamenta Cristina Coppola, vicepresidente della Confindustria con delega per il Mezzogiorno.
Bisogna insomma smetterla di spedire soldi alle regioni meridionali senza sapere che fine faranno, quali risultati intendono realizzare.
E’ possibile riprendere le fila degli incentivi e sottrarli alla logica delle clientele?
Questo è quello che chiede la Confindustria che a Bari ha organizzato un convegno dal titolo promettente: «Il Sud aiuta il Sud».
Per aiutare il Sud intanto bisognerebbe bloccare l’ emorragia di giovani laureati che hanno ripreso il cammino dei loro nonni verso il Nord. Non si emigra più con la valigia di cartone, ora chi prende la strada del settentrione ha un computer al seguito. Mail risultato è anche più dannoso di quando a cercare orizzonti più rosei erano braccia e spirito di sacrificio.
«Per rilanciare il Sud è necessario costruire un nuovo patto con i cittadini del Mezzogiorno. Un patto da parte delle istituzioni che torni a dare loro fiducia», ha proposto nei giorni scorsi il Presidente della camera, Gianfranco Fini .
Il problema, a parte i buoni propositi ,è da dove cominciare.

La Confindustria sostiene che il primo passo deve essere eliminare i finanziamenti a pioggia e sostituirli con un credito di imposta automatico da erogare dopo che l’investimento è stato realizzato.
Non dubitiamo che questa possa una delle vie da intraprendere, perlomeno per gli appetiti di chi vede nei finanziamenti a fondo perduto una occasione di arricchimento facile e senza controlli.
Ma poi ci sono da risolvere altre questioni non meno importanti come quella del funzionamento della macchina organizzativa al quale tutti sono concordi nell’attribuire le colpe maggiori del mancato sviluppo. Un palla al piede, quella della inefficienza burocratica, che si traduce in un 25 per cento in più dei costi.
Poi ce la mancanza di una programmazione.
C’è la carenza di infrastrutture, con la quota di rete delle Ferrovie dello Stato elettrificata a doppio binario che è inferiore alla media nazionale del 15 per cento e del 75 per cento nelle isole.
C’è la criminalità organizzata.
Infine il Sud se vuole uscire dalle sabbie mobili se la deve vedere con una organizzazione mondiale del lavoro che non consente più industrializzazioni forzate. Tantomeno, dopo l’irrompere sul mercato dei Paesi emergenti con manodopera, materie prime e imposte low cost , permette produzioni a basso valore aggiunto e meno redditizie. Secondo gli esperti non bisogna farsi più illusioni anche su edilizia e turismo.
L’unica opportunità oggi è avventurarsi nei settori nuovi ad alto contenuto tecnologico in cui tutta l’Italia è poco presente e in cui il Sud potrebbe giocare un ruolo chiave.
In questa ottica la riconversione ormai inevitabile di Termini Imerese può diventare un banco di prova di questa volontà di rinascita.
Proprio a Termini Imerese in queste ore ha fatto scalpore la proposta di un finanziere siciliano. Si chiama Simone Cimino, è alla guida di un fondo di investimento e ha firmato un contratto di collaborazione con l’indiana Rove Car Company, per avviare in Sicilia una fabbrica di auto elettriche.
L’indiana Rove è infatti leader nel mondo nel settore delle auto elettriche.
Cimino promette un investimento di circa mille miliardi e 3500 posti di lavoro. Dice che comunque le auto elettriche le costruirà in Sicilia, tanto meglio se potesse rilevare Termini Imerese.
Davanti a questa prospettiva la risposta dei sindacati è stata questa: «Noi abbiamo un solo interlocutore, la Fiat».
Ora è vero che quando si tratta di Sicilia e di finanziari bisogna andarci con i piedi di piombo perché le brutte sorprese non mancano mai, ma attaccarsi, come unica soluzione, ad un carro la cui destinazione è stata già segnata e si chiama cimitero, non sembra la politica migliore per salvare il lavoro dei siciliani.
I nuovi settori non hanno bisogno di braccia, ma di cervelli, politici e sindacali. E le nuove realtà vanno guardate in faccia.
Dopo avere indossato gli occhiali dell’antimafia, naturalmente.