29 marzo 2024
Aggiornato 05:30
Malattie neurodegenerative

La cura per il Parkinson arriva dal trapianto di staminali nel cervello

Scienziati giapponesi dell'Università di Kyoto eseguono il primo trapianto di cellule iPS al mondo per curare la malattia di Parkinson

Cervello e staminali per il Parkinson
Cervello e staminali per il Parkinson Foto: Fer Gregory | shutterstock.com Shutterstock

La cura per la malattia di Parkinson potrebbe arrivare dalle cellule staminali trapiantate nel cervello. Questo quanto sperimentato dall’Università di Kyoto che ha annunciato di aver condotto il primo trapianto al mondo di cellule staminali pluripotenti indotte (o iPS) per il trattamento del Parkinson.

L’avveniristico intervento
In quello che è stato definito un intervento avveniristico, i ricercatori guidati dal prof. Jun Takahashi del Centro universitario per la ricerca e l’applicazione delle cellule iPS hanno trapiantato nel cervello di un paziente di circa 50 anni delle cellule nervose create dalle cellule staminali derivate artificialmente, note come cellule iPS. Questo innovativo trattamento è il preludio a un metodo di cura che gli scienziati sperano di sviluppare nel breve tempo e che possa essere coperto dal sistema di assicurazione sanitaria del Giappone. «Collaborando anche con le aziende – dichiarato in una conferenza stampa il prof. Takahashi – vogliamo sviluppare un sistema di produzione di massa che ci consenta di fornire in tutto il mondo cellule nervose derivate dalle cellule iPS».

La malattia di Parkinson i l’Italia
Le stime, che però risalgono a ben vent’anni fa, parlano di almeno 250mila malati di Parkinson in Italia. Tuttavia, recenti ragionamenti suggeriscono che la cifra sia di almeno il doppio – e forse anche di più – ossia circa 500mila. Un numero enorme, se si tiene conto del tipo di malattia di cui stiamo parlando. La malattia di Parkinson si caratterizza per la riduzione dei neuroni produttori di dopamina nel cervello e per i classici tremori alle mani e ai piedi, con una progressiva rigidità nel corpo. In media, il male esordisce intorno ai 50 anni d’età. Ma, come sappiamo, ormai colpisce anche persone molto più giovani. Come per altre patologie degenerative al momento esistono soltanto trattamenti per alleviare i sintomi, ma non esiste alcuna reale cura.

La sperimentazione
Questa nuova e innovativa sperimentazione clinica è stata eseguita presso il Center for iPS Cell Research and Application e dall’ospedale dell’Università di Kyoto, con medici che hanno verificato la sicurezza e l’efficacia del trapianto. Le cellule iPs utilizzate nella procedura sono valse al prof. Shinya Yamanaka, che dirige il centro, il premio Nobel per la fisiologia o la medicina nel 2012. Le cellule iPS possono crescere in qualsiasi tipo di tessuto corporeo e sono considerate uno strumento promettente per la medicina rigenerativa e lo sviluppo di nuovi farmaci.
Durante l’operazione, durata tre ore, l’equipe di ricerca ha trapiantato 2,4 milioni di cellule nervose nel cervello del paziente. Queste sono state create usando cellule iPS derivate da persone che avevano tipi di immunità che li rendevano meno inclini a rigettare i trapianti. Secondo le intenzioni degli scienziati, le cellule nervose andrebbero a integrare i neuroni che secernono dopamina.

Sotto controllo
Il processo avviato non si ferma con il trapianto ma, come spiegato in conferenza stampa, per due anni il paziente sarà monitorato e sarà oggetto di un ciclo di trattamento con farmaci immunosoppressori per ridurre la possibilità di rigetti. Il trapianto è mirato principalmente a verificare la sicurezza delle terapia e si terrà sotto controllo il cervello per verificare che non si sviluppino tumori. Finora, non sono state osservate emorragie all’interno del cervello o altri sintomi dannosi. Il prossimo passo dei ricercatori sarà quello di condurre uno studio clinico con sette pazienti di età compresa tra i 50 e i 60 anni che abbiano soddisfatto i criteri per aver ricevuto trattamenti farmacologici senza risultati efficaci e dopo aver sofferto di Parkinson per più di cinque anni. «Lo scenario migliore è vedere i pazienti migliorare nella misura in cui non devono assumere alcuna medicina – conclude il prof. Takahashi – Per i chirurghi, il risultato è tutto ciò che conta».

Riferimento: Kyoto University.