29 marzo 2024
Aggiornato 09:00
Medicina

Sclerosi multipla, da una pianta l’arma che può fermarne la progressione

Da una pianta originaria dell’Africa, i ricercatori ritengono di poter ricavare un farmaco che potrebbe fermare la progressione della sclerosi multipla

Sclerosi multipla, da una pianta una possibile cura
Sclerosi multipla, da una pianta una possibile cura Foto: Shutterstock

BRISBANE – Ricercatori dell’Università del Queensland in Australia hanno scoperto che un peptide presente in una pianta di origini africane, l’Oldenlandia affinis, è in grado di fermare la progressione della sclerosi multipla. Ora pensano che si potrebbe ricavarne un farmaco altrettanto efficace.

Funziona
Lo studio, condotto su modello animale, ha mostrato che peptidi ciclici presenti nella Oldenlandia affinis, se somministrati ai modelli con sclerosi multipla, ne hanno fermato la progressione. Il composto, chiamato T20K, fa parte di un gruppo di farmaci basati su una forma sintetica di peptidi chiamati ciclotidi che potranno essere utilizzati per produrre un farmaco da destinare all’essere umano. «I ciclotidi sono presenti in una vasta gamma di piante comuni, e mostrano un significativo potenziale per il trattamento delle malattie autoimmuni – spiega il dott. Christian Gruber nel comunicato stampa della QU – I peptidi T20K presentano caratteristiche di stabilità e chimiche straordinarie che sono idealmente quello che vorresti in un candidato farmaco per via orale».

Lo studio
Lo studio è stato pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), e qui si riporta come i ricercatori abbiano testato un trattamento orale a base di T20K. Lo hanno somministrato a un gruppo di topi con SM, in una dose di 10 milligrammi – la stessa utilizzata nei trattamenti standard iniettabili – e a un altro gruppo in una dose da 20 milligrammi. Dai risultati è emerso che entrambi i gruppi hanno avuto una significativa riduzione dei sintomi della SM, con una maggiore riduzione dei sintomi in quelli che hanno ricevuto la dose più elevata. «Si tratta di una scoperta davvero emozionante perché può offrire una nuova qualità della vita per le persone con questa malattia debilitante», conclude Gruber.