29 aprile 2024
Aggiornato 18:30
intervista

Fuga di cervelli, ecco perchè non è solo una questione di soldi

Pochi studenti delle materie STEM, pochi brevetti e una scarsa vocazione al mercato. Perchè se le cose qui in Italiano non funzionano non è solo perchè non ci sono finanziamenti pubblici

Fuga di cervelli, ecco perchè non è solo una questione di soldi
Fuga di cervelli, ecco perchè non è solo una questione di soldi Foto: Shutterstock

PALERMO - Si fa presto a dire fuga di cervelli, nonostante i numeri. Secondo le stime i ricercatori italiani che fuggono dal nostro Paese per tentare la fortuna all’estero superano le 3mila unità. E, di fatto, se si manterranno i flussi attuali, il Belpaese potrebbe perdere ben 30mila ricercatori entro il 2020. Un danno economico considerevole per il nostro Paese che, ricordiamolo, non brilla certo per investimenti in ricerca e sviluppo. Anzi. Stiamo parlando di cifre ridicole che vanno dallo 0,5% del Pil per la ricerca pubblica (contro lo 0,6 della media Ue) e lo 0,7% per la ricerca privata (contro l’1,2 Ue). Un paradosso che influisce anche sul numero di ricercatori presenti in Italia, la metà di quelli francesi e addirittura un terzo di quelli presenti in Germania.

Ci manca la vocazione al mercato
Pochi, ma buoni vien da dire. Sì, perché i ricercatori italiani - all’estero - collezionano ampi successi, soprattutto grazie alle pubblicazioni scientifiche, alle ricerche: l’Italia è all’ottavo posto nella classifica mondiale per ciò che attiene alle pubblicazioni e alle citazioni. Ma allora se siamo così bravi perché i ricercatori italiani arrancano e molto spesso sono costretti a migrare all’estero? «Il motivo principale rimane il basso livello di finanziamenti pubblici che negli ultimi anni hanno subito una decrescita importante, per poi crescere seppur in piccola misura nell’ultimo anno - mi spiega Giovanni Perrone, Presidente di PNICube, l’associazione nazionale degli incubatori italiani - e che non consente ai ricercatori di trovare spazio nelle strutture di ricerca pubbliche». Un’altra ragione potrebbe ricercarsi nella ridotta vocazione delle nostre strutture di ricerca. «Non abbiamo una vera e propria vocazione al mercato e quando parlo di mercato mi riferisco soprattutto alla produzione di brevetti e spin-off - mi spiega ancora il dott. Persone -. E ciò è anche conseguenza del fatto che abbiamo tra le più basse percentuali di studenti universitari iscritti ai corsi di materie STEM che sono poi quelle che danno la possibilità di produrre più brevetti».

Pochi brevetti
Il tutto diventa più chiaro se analizziamo i numeri: nel 2016 l’Italia ha presentato solo il 3,3% di tutti i brevetti depositati all’Ufficio Europeo, contro - ad esempio - il 19% della Germania. Secondo i dati Eurostat 2014, Solo solo 6,9% dei giovani tra i 20 e i 29 anni studia o ha studiato materie STEM, contro l’11% della Germania e l’8,4% della media europea. E capite anche voi che c’è un po’ di differenza. Ma è troppo facile tirare le somme così senza considerare il livello sociale ed economico e la storia della terza missione dell’Università nel nostro un Paese. Senza dimenticarsi che probabilmente il motivo trainante restano gli investimenti pubblici che negli ultimi anni hanno subito una decrescita importante, per poi crescere seppur in piccola misura nell’ultimo anno. «In realtà il nostro è anche un problema di natura storica - mi spiega il presidente Perrone -. Le Università dei paesi anglosassoni hanno sviluppato meccanismi di terza missione rivolti alla produzione di brevetti e spin-off molto prima di noi. Noi abbiamo una storia ancora troppo breve, nell’ordine di meno di 20 anni». Ed è un dato che va considerato poiché 20 anni sono effettivamente pochi per creare l’ossatura produttiva di un Paese, qui in Italia poi, dove sappiamo esattemente cosa significa ‘lungaggini burocratiche’.

Più investimenti seed capital
Di fronte a problemi e ritardi, però, bisogna tirarsi su le maniche, non fosse altro perché i talenti ce li abbiamo e non possiamo permetterci di farceli scappare. Sicuramente, e sembra quasi banale dirlo, servono più investimenti pubblici nella ricerca. Ma non solo. Un ruolo fondamentale lo fanno le competenze, non quelle scientifiche in cui eccelliamo, ma in quelle imprenditoriali, di cui siamo piuttosto carenti, specialmente in alcune vaste aree del Paese. «Bisogna investire in una formazione che sia volta di più alla creazione di una mentalità imprenditoriale - continua Perrone - e incentivare metodi di valutazione e credibilità delle università anche sul loro contributo alla terza missione». Sì, valutarle, in pratica, anche sulla base di quanta vocazione al mercato possano produrre. In terzo luogo bisognerebbe creare dei fondi di investimenti seed capital destinati agli anei e agli incubatori universitari certificati. Questi, per loro natura, tendono a partorire startup di alto valore tecnologico: molte di queste startup, specialmente quelle che non appartengono al settore digitale, - hanno bisogno sin da subito di investimenti considerevoli per la realizzazione dei di prototipi un, meccanismo questo che accrescerebbe la possibilità di finanziamento nei successivi round di investimenti da parte di venture capital e business angels.

L’Open Innovation
E poi l’Open Innovation, importantissima. Soprattutto in un Paese dove le startup innovative restano piccole e dove solo il 30% di quelle iscritte al Registro delle Imprese ha un fatturato che supera i 100mila euro. «La ricerca, in questo senso, è un plus - continua Perrone. - Dal 2000 PNICube ha visto la creazione di 1200 spin-off, 640 dei quali hanno partecipato al Premio Nazionale per l’Innovazione. Questi hanno un fatturato medio di 220mila euro, il 25% in più delle della media di tutte le startup innovative». E la crescita sarà proprio un tema centrale nella tavola rotonda che si terrà a Palermo il 19 maggio nell’ambito dell’Italian Master Startup Award. Il problema della crescita potrebbe essere mitigato da una maggiore diffusione di pratiche di Open Innovation e quindi con investimenti da parte di corporate e medie aziende già consolidate sul territorio, una pratica già abituale e ampiamente diffusa all’estero e che incentiverebbe ancora di più anche gli investimenti da parte dei business angels e dei venture capital, e quindi favorirebbe la crescita delle startup da un lato, e il tasso di innovazione di corporate e medie imprese dall’altro.