20 aprile 2024
Aggiornato 12:00
Lo studio dell'International Journal of Political Economy

Il Ceta ci farà perdere 300mila posti di lavoro

Ci avevano raccontato che sarebbe stato un toccasana per le nostre economie, ma ora spunta un autorevole studio che mostra come il Ceta aumenterà disoccupazione e disuguaglianza

Un manifesto di protesta contro il Ceta.
Un manifesto di protesta contro il Ceta. Foto: Shutterstock

BRUXELLES - A qualche settimana dall'approvazione, da parte del Parlamento europeo, del trattato commerciale tra Europa e Canada (Ceta), trapelano i primi studi autorevoli sulle conseguenze del trionfo del libero mercato. Noi del Diario vi abbiamo già ampiamente raccontato i contraccolpi che tale accordo avrà sulla democrazia, oltre che sulla sicurezza, sulla salute e sull'ambiente. Non sono questi, però, gli unici settori (come se non fosse abbastanza) che ne risentiranno. Perché il Ceta potrebbe costarci addirittura 300mila posti di lavoro. La fonte è decisamente autorevole: si tratta di una pubblicazione dell'International Journal of Political Economy, i cui ricercatori hanno analizzato il trattato avvalendosi di diversi modelli per valutare l'impatto del Ceta sul mondo del lavoro. Utilizzando il modello più realistico, e cioè quello che non presuppone, come quello tradizionale, la piena occupazione permanente, i ricercatori hanno concluso che i Paesi firmatari perderanno 227mila posti di lavoro, e altri 80mila in giro per il mondo.

Più disuguaglianze
Il contraccolpo del Ceta diverrà evidente, però, anche sui salari: secondo lo studio, i lavoratori perderanno dai 300 ai 1300 euro all'anno in Europa e più di 1700 euro in Canada, mentre la quota di reddito nazionale destinato ai più ricchi aumenterebbe. In pratica, l'accordo causerà un evidente aumento delle diseguaglianze sociali.

Effetti a lungo termine devastanti
Pierre Kohler, delle Nazioni Unite, e Servaas Storm, della Delft University of Technology, hanno puntualizzato nello studio che «i nostri risultati mostrano che l'abbattimento dei costi e le misure di competitività introdotte dal Ceta avranno effetti negativi a lungo termine». Perché, spiegano, cercare di incrementare le esportazioni come un sostituto per la domanda interna non è una strategia di crescita efficace. Questo, considerando a maggior ragione la situazione economica attuale. In condizioni di austerità, alta disoccupazione e bassa crescita, sostengono gli studiosi, spingere sulla competitività riducendo il costo del lavoro non può che avere un effetto depressivo per l'economia. Così – scrivono i ricercatori – l'unico modo per rivitalizzare la domanda sarebbe quello di aumentare i prestiti privati, andando verso una deregolamentazione finanziaria, e favorendo instabilità e aumento del debito.

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I modelli dei sostenitori del Ceta irrealistici
Secondo i ricercatori, i sostenitori del Ceta si sono avvalsi di quattro studi per dimostrare la necessità del trattato, studi basati su presupposti neoclassici standard ma irrealistici, come la piena occupazione permanente di tutti i lavoratori in Canada e in Europa, cosa che esclude a priori qualsiasi rischio macroeconomico e i costi sociali associati alla liberalizzazione. In questo modo, hanno concluso che il trattato avrebbe portato a una crescita del Pil tra lo 0,03 e lo 0,08% in Europa e tra lo 0,03 e lo 0,076% in Canada. Al contrario, per gli autori dello studio da noi citato è necessario partire da presupposti più realistici e aderenti alla realtà, per stimare le vere conseguenze del Ceta.

Gli unici vincitori? Le multinazionali
Conseguenze su cui i ricercatori sono molto chiari: circa 300mila posti di lavoro in meno, e molta disuguaglianza in più. Perché, mentre i salari dei lavoratori scenderanno, la quota di reddito di capitale salirà dell'1,76% in Canada e dello 0,66% in Europa. Le carenze della domanda aggregata causate dall'aumento della disoccupazione causerà inoltre un calo di produttività che si tradurrà in perdite dello 0,96% e dello 0,49% rispettivamente in Canada e in Ue. Gli unici vincitori di questo accordo saranno, insomma, le multinazionali, che avranno il potere di influenzare le politiche dei governi e scavalcarne le decisioni per aumentare i profitti.