La Libia, per l'Occidente, è una causa persa. Tranne che per il petrolio
Nelle ultime settimane si sono susseguite le visite dei ministri degli Esteri europei in Libia: il primo è stato Gentiloni, l'ultimo l'omologo inglese Hammond. Ma non lasciamoci ingannare: la verità è che l'Occidente ha smesso da tempo di sperare nella stabilizzazione del Paese. E sta solo cercando di limitare i danni, e porteggere i propri interessi
TRIPOLI - Sono ore cruciali per la Libia, quella polveriera nordafricana pronta a esplodere a un passo dalle nostre coste, che faticosamente sta tentando, ormai da vari mesi a questa parte, di mettere ordine nel caos. Non a caso, nelle ultime settimane, è iniziata la «processione» di ministri degli Esteri europei, pronti a stringere la mano al neo-premier Al Serraj. Ad aprire le danze è stato Paolo Gentiloni; quindi, è stata la volta degli omologhi francese e tedesco; l'ultimo - pochissimi giorni fa - il ministro inglese Hammond, giunto a Tripoli proprio nelle ore in cui nell'Est della Paese il Parlamento di Tobruk si è riunito per dire sì al governo di pacificazione. Italia, Gran Bretagna e Francia si muovono per riaprire le ambasciate, nell'aria si respira un ottimismo che non si percepiva da tempo. Un nuovo capitolo si sta aprendo per la Libia? Il peggio è finalmente passato?
Pochi segnali positivi, troppe criticità
Purtroppo, non è così semplice. Nonostante i segnali positivi ci siano - e sia giusto sottolinearli -, le criticità rimangono. A Tripoli la tregua tra le milizie è estremamente fragile; del resto, tra i gruppi più intransigenti di Tripoli e Tobruk la tensione è ancora alta. Lo dimostra la fine che hanno fatto due delle guardie del vice di Serraj, Ahmed Majtig, uccise dai miliziani di uno dei tanti signori della guerra. Un episodio che potrebbe spiegarsi come la rappresaglia di una fronda degli islamisti dell’ex governo di Tripoli contraria all'accordo. D'altra parte, le milizie islamiste stanno ancora aspettando di riavere indietro, il prima possibile, i fondi congelati dal nuovo governo, in accordo con la Banca centrale libica, verso gli enti pubblici. Quindi, se non una rappresaglia, potrebbe trattarsi quantomeno di un avvertimento.
Un accordo dalle fondamenta d'argilla
La verità è che la Libia era e rimane un Paese frammentato, e l'accordo patrocinato dall'Onu e firmato a dicembre è nato già fallito. Quest'ultimo si basava infatti sulla presenza dei due parlamenti di Tripoli e Tobruk, che però, nei fatti, non funzionano più, e non sono neppure del tutto rappresentativi del complesso panorama politico libico. Lo stesso parlamento di Tobruk non è mai stato un vero parlamento unitario per il Paese, a partire dalle elezioni del 25 giugno 2014: in quella occasione mancò infatti un accordo tra le parti per riconoscere i risultati. Non a caso, quella chiamata alle urne fu seguita da una tragica ondata di violenze, che poi impedì al governo di funzionare nella capitale, e al parlamento di insediarsi a Bengasi. E quella Camera, alla fine riunitasi a Tobruk, fu sì quella riconosciuto dalla comunità internazionale, ma non godette della stessa legittimità in patria: tanto che fu subito boicottata da un numero sempre maggiore di deputati.
Presupposti troppo deboli
Giova peraltro ricordare che la Camera di Tobruk non ha mai davvero approvato l'accordo concertato dall'Onu. Se oggi si parla di tale «accordo», è solo perché è stato «fatto passare» con uno stratagemma: considerare una lettera firmata da 101 parlamentari un «surrogato» dell'impossibile voto di fiducia. Senza contare che molte firme sono state contestate, che e le stesse delegazioni libiche ai negoziati Onu si sono rifiutate di riconoscere questo meccanismo. Insomma, lo stesso accordo che gli occidentali tanto ricercavano per poter traghettare il Paese verso la stabilità poggia, nei fatti, su fondamenta di argilla. Senza contare tutti gli altri elementi di criticità che costellano lo scenario: un potere detenuto nei fatti dai gruppi armati più che dagli organismi legittimi, la presenza delle divisioni tribali, a cui si aggiunge lo scontro tra i membri del vecchio regime e i rivoluzionari, l'influenza territoriale delle milizie, stanziate nelle tre principali città libiche (Tripoli, Bengasi, Sirte), la presenza, pur piuttosto modesta, dello Stato islamico.
I 2 obiettivi dell'Occidente
In mezzo a tutto ciò, spuntano poi gli interessi occidentali: che sono molto più cinici di quel che a prima vista può apparire. Perché la «sfilata» di leader europei nel Paese, nonché il recente mea culpa di Obama (subito ridimensionato) non devono essere interpretati come segnali di speranza e di fiducia nella risoluzione della crisi: tutt'altro. Come ben spiega Mattia Toaldo su Limes, la maggior parte dei leader occidentali ha da tempo ormai smesso di nutrire l'illusione che il «paziente libico» si possa guarire. Semmai, la speranza è quella di lenire due o tre «disturbi», giusto quelli più pericolosi per l'Occidente. In primis, il proliferare dell'Isis, minaccia scongiurata con la guerra dei droni e l'appoggio alle milizie (tra loro nemiche) impegnate nella battaglia; quindi, l'immigrazione verso l'Europa, «invasione» da evitare possibilmente concertando un accordo simile a quello stretto con Erdogan per la rotta balcanica. Si aggiunga, in merito a quest'ultimo punto, la speranza di ottenere il benestare libico all'estensione dell'operazione contro i trafficanti nelle acque territoriali libiche.
L'oro nero, deus ex machina
E poi c'è lui, l'ingrediente che non manca mai in simili teatri geopolitici, il vero deus ex machina della situazione: il petrolio. Prendiamo il caso della recente visita dell'inglese Hammond: il ministro ha portato a Serraj 12 milioni e mezzo di euro di finanziamenti per il contrasto al traffico di migranti, per le attività di contro-terrorismo e per gli investimenti finalizzati alla ricostruzione, ottenendo in cambio, naturalmente, appalti e concessioni alle compagnie petrolifere di bandiera. C'è chi dice che negli ultimi mesi inglesi, francesi e americani abbiano addirittura iniziato a finanziare e addestrare anche le milizie islamiste di Tripoli e Misurata, oltre alle forze di Tobruk. L'intento è cristallino: in questo modo, comunque vadano le cose, i rifornimenti di petrolio sono assicurati. E qui entra in gioco Roma, a cui tocca il compito (e la responsabilità) più difficile: portare in salvo il Paese dal caos. Un obiettivo a cui l'Occidente ha di fatto rinunciato da tempo, lasciando al Belpaese l'ingrato ruolo di mettere qualche pezza qua e là. Laddove sia ancora possibile.
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