Se la crisi con l'Iran dimostra che razza di alleato sia l'Arabia Saudita per l'Occidente
L'uccisione del religioso sciita al-Nimr e il conseguente congelamento dei rapporti diplomatici con l'Iran svela definitivamente ciò che gli Stati Uniti e l'Europa hanno cercato (senza troppo successo) di negare da tempo: Riad è un alleato di cui dovremmo proprio vergognarci
RIAD - E' uno dei tradizionali alleati dell'Occidente in Medio Oriente, fa parte della coalizione che, dall'agosto 2014, bombarda l'Isis in Siria senza troppa convinzione e vanta stretti rapporti economico-commerciali con Usa e non solo fondati sull'oro nero. Eppure, proprio all'inizio di questo 2016, l'Arabia Saudita ha dimostrato al mondo intero che ambiguo e imbarazzante alleato sia per l'Ovest del mondo. Lo scorso 2 gennaio, infatti, il Paese ha eseguito 47 condanne a morte di prigionieri accusati di «aver adottato l’ideologia radicale takfiri, essersi uniti a organizzazioni terroriste e aver orchestrato diverse azioni criminali». Nella lista nera sono finiti anche diversi esponenti della comunità sciita locale, che si erano uniti alle proteste del 2011-12. Tra loro, il religioso Sheikh Nimr Bakr al-Nimr, portavoce delle istanze della comunità sciita della Provincia Orientale e divenuto simbolo dell’intento settario del regime dei Saud. Tali esecuzioni, peraltro, sono state «benedette» da gran mufti saudita Sheikh Abdul-Aziz Alal-Sheikh, secondo cui tale condanna «è stato un atto di misericordia, in quanto impedisce loro di compiere ulteriori atti malvagi».
Chi era Sheikh Nimr Bakr al-Nimr
Eppure, quest'atto di «misericordia» non è andato giù all'Iran sciita, provocando una crisi diplomatica che non ha precedenti almeno negli ultimi anni. In effetti, Sheikh Nimr Bakr al-Nimr, dopo le proteste scoppiate nel 2011-12 contro il regime, è diventato il punto di riferimento del movimento che sostiene le istanze democratiche in Arabia Saudita, favorevole a riforme politiche e maggiori diritti per la comunità sciita. Al-Nimr è stato arrestato nel 2012 con le accuse di «istigazione alla ribellione» e «disobbedienza», e condannato a morte nell’ottobre 2014 per aver «cercato l’intervento straniero nel paese, aver disobbedito ai governanti e essersi ribellato alle forze di sicurezza». Naturalmente, a nulla sono valsi gli appelli in giudizio, rigettati già nel mese di ottobre, subito dopo la condanna. L’unica via di salvezza per Sheikh al-Nimr sarebbe stata la grazia di re Salman: grazia che non è mai arrivata. Del resto, al-Nimr non è il solo bersaglio della furia saudita: l'intera minoranza sciita del Paese è stata oggetto di crescenti discriminazioni soprattutto dopo il 1979, anno in cui in Iran l’ayatollah Khomeini portava lo sciismo al potere. Da quel momento, i due milioni di sauditi sciiti, che corrispondono a un 10-15% della popolazione, si sono trovati vittime di una guerra per procura contro Teheran, e di un tenace impegno da parte dei sauditi wahabiti ad estirpare qualsiasi eresia dalla cosiddetta «Terra Santa dell'Islam».
Un alleato controverso per l'Occidente
In un tale panorama, è sotto gli occhi di tutti come suoni sterile e vuoto l'appello alla moderazione lanciato dall'amministrazione Obama a Riad, che degli Stati Uniti è il principale alleato in Medio Oriente. Perché l'Occidente è perfettamente conscio di come l'alleato saudita mandi a morte 47 persone al giorno, o di come continui a sganciare bombe sullo Yemen, seminando distruzione e morte tra civili innocenti. E ancora, l'Occidente vede benissimo come il regime saudita sostenga un credo retrivo e pericoloso - quello wahabita -, e continui a finanziare movimenti islamisti radicali in Siria e non solo. L'Arabia Saudita è lo stesso Paese che ha condannato alla crocifissione un giovane ragazzo che nel 2012, a 17 anni, aveva protestato durante una manifestazione contro il governo. Verrebbe da chiedersi il motivo per cui l'indignazione dell'Occidente - che di volta in volta si è abbattuta su Saddam Hussein, su Gheddafi, su al-Qaeda, sui talebani, sull'Isis - stenti invece a rovesciarsi sui re sauditi, con cui anzi i big occidentali amano di tanto in tanto farsi fotografare.
Fattore petrolio
Il motivo, forse, sarebbe ben misurabile in petrodollari. Ed in effetti l'oro nero c'entra anche con la crisi attualmente in corso con l'Iran. Perché i prezzi dell'oro nero, nei giorni scorsi, hanno raggiunto i minimi dal 2004, dopo aver perso circa il 70% dal giugno 2014. Un'evoluzione che ha finito per mettere in ginocchio anche i conti della monarchia saudita, che vede invece il grande nemico iraniano, dopo la firma dell'accordo sul nucleare, pronto a riavviare le estrazioni su larga scala e a ottenere ricavi aggiuntivi. Il tutto, mentre l'Arabia Saudita ha presentato per il 2015 un disavanzo di 98 miliardi di dollari, a fronte di entrate petrolifere in calo del 23%. I sauditi, pertanto, si apprestano a varare un articolato piano di austerity che prevede il taglio dei sussidi energetici, il rincaro del prezzo della benzina, delle bollette elettriche e dell’acqua, valutando inoltre l’introduzione dell’Iva e l’aumento delle accise su bevande e tabacco. Così, con Teheran pronta a produrre 500mila barili al giorno a un costo di produzione inferiore a 10 dollari al barile, la prospettiva di un muro contro muro ribassista con Riad è sempre più concreta.
Le conseguenze
Così, il gesto di Riad suona come una sfida al rivale di sempre. Da un lato, il messaggio è chiaro: l'Iran non sarà mai il benvenuto nella comunità delle nazioni, neppure dopo la fine delle sanzioni legate al programma nucleare. E non è un caso che nella nuova Alleanza militare islamica creata dai sauditi «contro il terrorismo» non siano inclusi Paesi a guida sciita, come Iran e Iraq. Dall'altro lato, anche le conseguenze sembrano facilmente prevedibili: quella provocazione risveglierà le violenze settarie che da sempre sconvolgono il mondo musulmano: ciò potrebbe accadere in Iran che si prepara alle elezioni il prossimo febbraio, ma anche in Siria, attesa da negoziati di pace che potrebbero rivelarsi ancora più complicati del previsto. Le ripercussioni potrebbero farsi sentire anche nell'ambito della lotta all'Isis, per alcuni nemico «meno nemico» degli sciiti. Il tutto, nel vergognoso silenzio dell'Occidente, che - ormai è chiaro - è abilissimo a indignarsi solo ed esclusivamente quando ha interessi per farlo.