L'Isis sta vincendo?
Dopo la conquista di Ramadi e Palmira, sembra che l'avanzata dello Stato Islamico sia irresistibile. Ma l'Isis sta davvero vincendo? Dipende. Perché se in Siria Assad sembra in grave difficoltà, in Iraq l'Isis vince almeno da un punto di vista: quello mediatico
BAGHDAD – E’ stata una settimana intensa, per lo Stato Islamico. La conquista di Ramadi e Palmira hanno suscitato un grande clamore mediatico, e sono state descritte come tappe fondamentali per la sua avanzata, rispettivamente, in Iraq e in Siria. Possiamo dunque dire che il Califfato nero sia nel bel mezzo di un’irresistibile ascesa? Insomma, l’Isis sta vincendo?
Assad in crisi?
Secondo John Simpson, firma della Bbc, è necessario fare le dovute distinzioni. In Siria, la presa di Palmira avrebbe segnato un punto fondamentale nell’espansione dell’Isis, e il regime di Assad pare in seria difficoltà. In questo senso, il Califfato Nero sembra aver costruito le proprie «vittorie» sulla riluttanza dei Paesi occidentali ad intervenire in aiuto al regime: così, l’Isis ha potuto facilmente prendere in contropiede i gruppi più moderati, diffondendosi sul territorio.
L’importanza della strategia mediatica
Diverso, il caso iracheno. Dove la perdita di Ramadi rivelerebbe in primis la debolezza dell’esercito governativo: 150 guerriglieri sono bastati per sconfiggere 1500 soldati. Per la Bbc, il comandante che aveva il controllo sulla città, esausto e convinto che l’Isis, dopo mesi di minacce, avrebbe utilizzato pericolosissime armi esplosive, avrebbe ordinato ai suoi uomini di ritirarsi. E c’è un altro aspetto da considerare, secondo Simpson: «l’Isis è estremamente preparato nel gestire efficacemente le pubbliche relazioni». Ciò che si aggiunge alle vittorie sul campo effettivamente registrate dallo Stato Islamico, cioè, è la capacità di ingrandirle, spingendo l’opinione pubblica a considerare la minaccia del Califfato ancora più grande di quanto non sia in realtà. Un talento, questo, di cui le forze che cercano di contrastarlo, governo iracheno in primis, sono del tutto prive. Lo dimostra l’intervista rilasciata all’emittente britannica dal primo ministro iracheno Haider al-Abadi, in cui ha tentato di difendere i soldati presenti a Ramadi dall’accusa, avanzata dal segretario alla difesa Usa Ashton Carter, di non aver voluto combattere. Per al-Abadi, al contrario, la volontà di combattere non mancava, ma le scioccanti tattiche di guerra dei 150 guerriglieri dell’Isis sarebbero stati sufficienti per costringere alla fuga 1500 soldati dell’esercito. Il che equivale, tra le righe, a una pubblica ammissione di debolezza.
L’Isis è davvero più forte dell’esercito iracheno?
Così, anche quando le forze governative sono riuscite ad aprirsi la strada verso Baiji, città a nord di Baghdad, strategica per i suoi giacimenti di petrolio e per la sua posizione tra Mosul e Ramadi, la vicenda ha avuto pochissima risonanza sulla stampa internazionale. Allo stesso modo, quando al-Abadi ha promesso di riconquistare Ramadi nel giro di pochi giorni, pochissimi gli hanno dato credito. Ciò non significa che l’esercito iracheno non sia in difficoltà nel contrastare l’avanzata dello Stato islamico. Lo è, in effetti: lo dimostra, ad esempio, la decisione di ricorrere a milizie sciite, nonostante il pericolo di rintuzzare tensioni settarie, specialmente in regioni a maggioranza sunnita, come Ramadi e Mosul. Tensioni che, già di per sè, denunciano il fallimento del governo iracheno, colpevole di aver permesso che le rivalità tra i gruppi sunniti, sciiti e curdi portassero a una progressiva marginalizzazione delle minoranze, che hanno finito per trovare nell'Isis il male minore. Eppure, nonostante questo, Simpson rimane convinto di un punto: l’Iraq, rispetto all’avanzata dello Stato islamico, rimane in una posizione molto migliore della Siria. Almeno per ora.
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