20 aprile 2024
Aggiornato 00:30
Editoriale

Dalle regionali meno politichese e più occupazione

Dall’informazione e dal Palazzo poca attenzione sui posti di lavoro perduti nel 2009

Il dato sull’occupazione reso noto dall’Istat è rimasto sulle pagine dei giornali lo spazio del mattino.
Poi il dibattito, le polemiche e lo scontro politico si sono ripresi tutto lo spazio a disposizione, con tanti saluti per quei 380 italiani che nel 2009 hanno perso il posto di lavoro.
Fa bene il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, a rimarcare che il tasso medio annuo di disoccupazione, passato dal 6,7 per cento del 2008 al 7,6 è comunque inferiore alla media Eurozona che lo scorso anno ha toccato il 9,4.
Paesi come la Francia e la Svezia hanno subito la crisi più di noi. In Spagna la perdita di posti di lavoro ha toccato il 18 per cento e gli stessi Stati Uniti hanno registrato una disoccupazione del 9,3 per cento.
Ma bastano i dati sulle percentuali, più o meno favorevoli, il confronto più o meno penalizzante con altri paesi, a metterci a posto la coscienza?

Tanto per essere chiari su dove si vuole andare a parare con questa domanda, ci teniamo a rimarcare il lodevole impegno del governo (sostenuto dalla politica attuata con convinzione dal nostro ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che non ha fatto sconti a nessuno nel ritenere che tutti i fondi disponibili fossero dirottati verso ammortizzatori sociali) che ha impedito al vento della crisis di spazzare via sia il legame dei lavoratori con l’industria, che la coesione sociale.
Ciò non toglie che ai 380 mila posti perduti si debbano aggiungere anche i 500 mila in cassa integrazione.
Queste sono le cifre e ha ragione chi sottolinea che c’è andata meno peggio di altri.
Ora però il punto all’ordine del giorno è un altro. Stabilito, come tutti riconoscono, che la tempesta ha perso consistenza, ma non è del tutto passata, la differenza fra noi e gli altri è affidata alla capacità di reagire, di aggiustare i cocci e di ricostruire un edificio che ha riportato ferite profonde.

E’ su questo versante che va denunciata una assoluta sproporzione fra quanto è accaduto, quanto sta accadendo, quanto potrebbe accadere e l’attenzione che il Paese riserva al rilancio dell’azienda Italia.
A fronte dei dati sulla disoccupazione che ci fanno scivolare indietro di oltre cinque anni, ad aziende che ancora stanno con l’acqua alla gola, ci saremmo aspettati una mobilitazione generale di analisi e di idee su come rilanciare il Paese. Non ci sono segnali che ci sia stata.
Dopo l’annuncio dell’Istat avremmo voluto leggere sui quotidiani che compriamo all’edicola i resoconti di inviati sparpagliati per l’Europa, per gli Stati Uniti, la Cina, il Giappone, a indagare su come gli altri stanno affrontando l’emergenza. Su quali provvedimenti hanno già messo in atto o stanno studiando. Non li abbiamo letti.

La Spagna ha subito un calo del 18 per cento dell’occupazione: chi ci racconta come stanno reagendo i governanti di questo paese? Quali misure stanno adottando per tamponare l’emorragia?
Dagli Stati Uniti abbiamo seguito giustamente passo passo il cammino della riforma sanitaria, ma non sappiamo nulla su quanto l’Amministrazione sta facendo per recuperare un sistema industriale compromesso, a partire dal settore automobilistico.
Sappiamo che la Germania lo scorso anno si è piazzata al secondo posto nella classifica mondiale (dopo la Cina) dei paesi esportatori, ma sfidiamo a trovare nella nostra rete di informazioni uno studio approfondito sulle ragioni di questo successo.
Della Cina ci colpiscono i record della crescita, ma solo il Sole24Ore ha dedicato poche righe ad una notizia sorprendente: nei primi dieci giorni di questo mese la Cina ha importato più di quanto abbia esportato accumulando un deficit commerciale di otto miliardi di dollari. Non succedeva dal 2004. L’import cinese dagli Stati Uniti in questo mese di marzo è cresciuto del 37 per cento, quello dall’Europa del 35 per cento, dal Giappone del 48 per cento. E’ una effettiva inversione di tendenza capace di spostare l’ago della bilancia mondiale o una mossa strategica di Pechino per liberarsi dalla pressione di chi chiede a gran voce una rivalutazione dello Yuan?

Sono interrogativi e risposte che potrebbero avere una importanza vitale su quei 380 mila posti di lavoro persi dall’Italia e dal made in Italy.
Ma ci verranno fornite mai da quei giornali presi a raccontarci ogni virgola dello scontro fra Cesare Geronzi e i tifosi di Antoine Bernhaim (un signore nato nel 1924) per il posto di guida alle Generali? Troveranno mai rilievo in uno spazio dedicato prevalentemente alle polemiche suscitate dal ministro Brambilla, che ha annunciato come una svolta storica per il turismo il via libera a nuovi campi da golf?
Quando si parla di scollamento fra paese reale e paese politico forse si dovrebbe cominciare con l’analizzare con attenzione i codici che governano il sistema dell’informazione. Un sistema che appare perfettamente funzionale alle carenze e alle distrazioni della politica.