29 marzo 2024
Aggiornato 07:30
La «crisi» dell'occupazione

Termini Imerese e Alcoa banco di prova dell’occupazione

L’Italia ha bisogno di un grande processo di riqualificazione. Intanto arrivano 1,6 miliardi per la ricerca

Il vero problema della vicenda Fiat è che tutti hanno ragione e tutti hanno torto.
Non è un rebus, è proprio come stanno andando le cose.
Veniamo alle ragioni.
Ha ragione Marchionne a dire, io devo fare quadrare i conti di una azienda, non lo posso fare continuando a mettere sul mercato auto incurante di un mercato crollato da un giorno all’altro del 40 per cento.
Ha ragione però anche il governo quando dice alla Fiat, siamo stati generosi con gli incentivi alla vostra industria, non possiamo continuare a farlo a tempo indeterminato, anche perché ci sono altre categorie che bussano alla porta degli aiuti e non possiamo continuare con questa disparità di trattamento.

Vediamo i torti.
Sbaglia la Fiat quando distribuisce un lauto dividendo agli azionisti e il giorno dopo mette in cassa integrazione 30 mila dipendenti. E’ come dire, c’è stata una annata buona e quindi è giusto che ci siamo spartiti il guadagno, ora che le cose vanno male, se volete che la macchina torni a funzionare e i lavoratori a percepire il salario, rimetteteci i soldi degli incentivi.
Ha sbagliato, però anche il governo a non prevedere una uscita graduale dagli incentivi: lo dimostra la mezza marcia indietro che sta facendo.

Molto probabilmente si giungerà ad un compromesso tampone, ma il problema non si risolve con una manciata in più o in meno di incentivi.
Risolto il caso incentivi resterà in piedi lo spettro della chiusura di Termini Imerese che è il vero nodo strutturale della Fiat e non solo della Fiat perché coinvolge a 360 gradi il tema di come l’Italia sta affrontando i cambiamenti imposti dal mercato.
Senza risolvere questo problema il governo rischia infatti di trovarsi ogni giorno gli operai asserragliati sopra i capannoni, come in Sicilia, o stesi sui binari come in Sardegna, dove si protesta per la decisione della multinazionale Alcoa di abbandonare gli stabilimenti di Portovesme e lasciare a terra, fra dipendenti, e indotto circa 2000 lavoratori.
Per avere un quadro di cosa sta succedendo sul mercato è a realtà come Termini Imerese, Alcoa o Faenza, dove la Omsa, ha deciso di trasferire la produzione in Serbia, che va rivolta l’attenzione.
A Termini Imerese, a Portovesme, a Faenza, ma questi tre esempi sono estendibili a centinaia di altri casi italiani con le stesse caratteristiche, il problema è costituito da impianti che il sopraggiungere prepotente della concorrenza ha spinto fuori dal mercato perché non competitivi.
L’unica soluzione, a volte, per le imprese è trasferirsi all’estero.

Sono gli effetti della delocalizzazione, cioè di un fenomeno che non è nato ieri, ma che la crisi sta rendendo più drammatico. E così torna d’attualità il dilemma di quali provvedimenti adottare per spingere le aziende a non abbandonare il campo.
In passato, per salvare il sistema industriale, in aggiunta alle partecipazioni statali, si arrivò perfino a mettere in piedi un carrozzone, un lazzaretto delle imprese decotte, chiamato Gepi. Si bruciarono così somme enormi dei contribuenti che finirono per ingrassare unicamente le tasche dei boiardi di Stato, in cambio di benefici temporanei e controproducenti per i lavoratori.
Sono esperienze che è giusto citare solo per rinfrescare la memoria su ciò che non bisogna fare.
Ma l’alternativa quale è? Lasciare i disoccupati al loro destino, in aree dove non ci sono altre opportunità occupazionali? Spingerli ad andare a raccogliere i mandarini a due euro l’ora a Rosarno? Creare un terzo e quarto mondo in casa con il risultato di provocare un impoverimento generalizzato? O, in alternativa, sovvenzionare a vita imprese senza futuro?
E’ sulle risposte da dare a queste impellenti domande che si gioca la capacità di governare l’azienda Italia.
Bisogna mettersi a tavolino per studiare attentamente i mercati e il loro futuro. Stabilire che cosa conservare e che cosa cambiare. Fare di Prato un laboratorio nazionale della trasformazione e della riqualificazione. Bisogna ridisegnare i distretti, metterli in rete. Bisogna convincere le Regioni a federare i centri di innovazione, a mettere in sinergia i parchi tecnologici, ad individuare le punte di eccellenza.
In poche parole va buttato giù al più presto un piano industriale. E’ necessario individuare gli interventi di tamponamento più urgenti per non confonderli con quelli a medio e lungo periodo ai quali affidare il cambiamento e le difese dagli effetti nefasti della globalizzazione, che è come il colesterolo: ce n’è uno buono e uno cattivo.
Per evitare la globalizzazione cattiva bisogna anche riconsiderare i rapporti che ci legano al resto del mondo. E’ indispensabile acquisire un peso maggiore nelle istituzioni che governano i commerci a partire dal World Trade Organization, che è l’organismo che ha aperto le porte alla Cina consentendole in poco tempo uno sviluppo vertiginoso.
Bisogna che qualcuno cominci a spiegare a Pechino che non può crescere al ritmo del 10 per cento l’anno e continuare ad invaderci di merci contraffatte e di lavoratori clandestini da infilare negli scantinati di Prato.
Insomma c’è un grande bisogno di unificare gli sforzi del Paese, a partire dalle centrali di spesa.
Per ogni soldo uscito dalle casse dello Stato bisognerà verificare quale risultato sia stato raggiunto.
Sorvegliata speciale, da questo punto di vista, deve essere la ricerca. Gli obiettivi raggiunti da quello che è il motore dello sviluppo devono essere monitorati con estrema attenzione, non solo per verificare che dei soldi pubblici venga fatto un uso corretto, ma per capire se il bersaglio mirato è effettivamente in grado di produrre la modernizzazione richiesta.
Con un decreto ministeriale lo Stato sta trasferendo ai 13 centri di ricerca italiani 1,6 miliardi di euro.
La novità è che, insieme ai finanziamenti, quest’anno arriverà anche una lettera del ministro Gelmini che invita i ricercatori «a fare un salto di qualità, passando dalle enunciazioni alle realizzazioni».
Basterà una raccomandazione del ministro a garantirci quel salto di qualità di cui ha bisogno il Paese?