19 luglio 2025
Aggiornato 09:30
Schermo Piatto

«Ho visto morire Ayrton Senna. Vent'anni dopo ancora non lo accetto»

1 maggio 1994, storia di una domenica di profondo dolore. Avevo quindici anni, Senna era il mio idolo. E lo è ancora

Primo maggio 1994, diciassette minuti dopo le due del pomeriggio, Ayrton Senna esce a 210 km/h dal rettilineo del traguardo del circuito di Imola che immette nella curva del Tamburello. La sua Williams dovrebbe curvare, ma inspiegabilmente tira dritto, come un proiettile, schiantandosi contro il muretto eretto a protezione del fiume Santerno che scorre lì, a pochi metri dal limitare esterno del circuito. Non ci sono gomme, barriere, solo durissimo cemento.

Lo schianto è spaventoso, il tempo si ferma. Io avevo quindici anni e quella domenica guardavo distrattamente il Gran Premio nella mia cameretta, impegnato a giocare al mio canestrino, fissato sopra la porta, con una pallina di spugna per non fare danni e non disturbare quelli che abitavano di sotto. Era il mio gioco preferito. Negli anni '90 i quindicenni come me pensavano ancora a giocare nelle proprie camerette piuttosto che farsi le canne al parco. La passione per la Formula 1 me l'aveva inculcata mio padre, grandissimo tifoso ferrarista. Ricordo quando, ancora piccolissimo, giocavamo insieme con la pista Polistil con la Ferrari 312T di Lauda e la McLaren M23 di Hunt, per poi guardare le gare sul divano, entrambi con una ciotola piena di Fonzies. Quella prima domenica di maggio mio padre non c'era, ero solo davanti al televisore. Cala il silenzio, tutto attorno a me sembra rallentato. Impietrito guardo la Williams fermare la sua corsa di traverso. Il lato destro non c'è più. La ripresa aerea dall'elicottero inquadra la testa di Senna. Sembra muoversi, piccoli impercettibili scatti. Sembrano spasmi nervosi, ma tanto basta per sperare che stia bene. Forse è solo svenuto. Lo spero con tutto il cuore.

Immobile stringo ancora la pallina di spugna nella mano destra, poi arrivano i soccorsi, con colpevole, inaccettabile ritardo. Mi inginocchio davanti al televisore e inizio a piangere. Il dramma si consuma davanti ai miei occhi. Cercano invano di rianimarlo, gli tolgono il casco, lo spogliano, ma niente, Senna non si muove. Non so quanto tempo sia passato dallo schianto, mi sembra un'eternità. Arriva l'elicottero. I telecronisti Rai non sanno dire se sia morto, ma la situazione sembra disperata. Lo portano via, in ospedale. Passano le ore ed io non cambio posizione. Sono ancora inginocchiato per terra con le gambe ormai addormentate, e non smetto di piangere. Alle 18.40 l'annuncio ufficiale: Ayrton Senna è morto. Quella era la prima volta in tutta la mia vita che mi confrontavo con la morte. La vidi in faccia, la vidi in televisione. Non era un parente, un amico, una persona cara. Era un pilota brasiliano di Formula 1 che avevo visto solo in Tv, eppure quella fu la prima volta che versai così tante lacrime.

Il giorno prima era scomparso tragicamente anche Roland Ratzenberger. Oggi che di anni ne ho 35 mi chiedo perché non piansi anche per lui. Quasi me ne vergogno, provo un senso di imbarazzo nei suoi confronti. Ma poi capisco che non devo, è una cosa naturale. Non esistono morti di Serie A e morti di Serie B, ma solo persone a cui ci si sente più legati. Altrimenti si piangerebbe per tutte le scomparse. Ma è umanamente ovvio che la morte di una persona a cui ci si sente più legati susciti un trasporto diverso rispetto a quella di uno sconosciuto.

Vent'anni dopo, riguardando quelle immagini, rifletto con terrore sulla dinamica di quell'incidente. In questi casi si parla quasi sempre di tragica fatalità, ma qui il caso non centra proprio nulla. Era tutto scritto, doveva andare a finire esattamente così. Ciò che mi atterrisce è il perché. Non so spiegarmelo, non voglio accettarlo. La causa dell'incidente fu la rottura del piantone dello sterzo. Se si fosse rotto in un altro punto del circuito, in una curva lenta, Senna sarebbe ancora vivo. E invece no, si è tranciato proprio lì dove c'era quel muro. Come se non bastasse, la macchina avrebbe potuto impattare con un'angolazione diversa, il braccetto della sospensione non sarebbe finito nel casco di Senna. E invece no. Nonostante l'impatto tremendo, la causa della sua morte è stato proprio il colpo alla testa ricevuto da quel piccolo pezzo della sospensione. Sarebbe bastato che fosse volato via qualche centimetro più in alto, ma ancora una volta no. Il sistema di sospensioni multilink aveva permesso alla Williams di dominare gli ultimi due mondiali convincendo Senna a lasciare la McLaren per una macchina più competitiva, e come se non bastasse era stato lui a chiedere agli ingegneri nei test invernali di modificare il piantone dello sterzo per avere il volante più in alto e così più adatto al suo stile di guida. Due componenti tecniche che lo hanno entrambe tradito, che lo hanno entrambe ucciso. Il fato deve avere un senso dell'umorismo decisamente perverso.

Mi ritorna alla mente l'incidente di Marco Simoncelli. Anche in quel caso tutto è andato storto affinché lui morisse. Poteva staccarsi dalla moto, poteva continuare dritto invece di tornare in pista, quelli che lo hanno travolto potevano essere un metro più indietro e lo avrebbero sfiorato, Rossi poteva colpirlo in un altro punto ed invece la sua ruota gli è passata proprio sul collo. Marco Simoncelli, lui è stato il secondo sportivo, il secondo pilota la cui scomparsa mi ha straziato profondamente. Anche nel suo caso ho pianto per ore davanti alla televisione, e ancora faccio fatica ad accettarlo.

Entrambi, Senna e il Sic, forse se lo sentivano che quelle gare non avrebbero dovuto correrle, e solo loro sanno il perché. Dalle cronache e dalle immagini dei giorni precedenti, oggi sappiamo che Senna era rimasto profondamente scosso sia dall'incidente del venerdì da cui Barrichello ne uscì miracolosamente incolume, sia da quello mortale di Ratzenberger il giorno dopo. Il suo fisioterapista, Josef Leberer, per le 98 gare precedenti lo aveva sempre massaggiato dopo cena la sera prima della gara. Ma quel sabato 30 aprile per la prima volta Senna rifiutò. «Sto bene» disse, e se ne tornò in camera assorto nei suoi pensieri. C'era qualcosa che non andava, e lui se lo sentiva.

Quella domenica, prima della gara, scese in pista come tutti per i trenta minuti di warm up. Alla radio gli venne comunicato che Alain Prost, il suo acerrimo rivale ritiratosi l'anno prima dopo aver vinto il mondiale proprio con la Williams, era ospite nel box e lo stava guardando. «Mi manchi Alain» rispose Ayrton, prima di piazzare il miglior tempo sul giro. Sembra incredibile viste le sportellate e i colpi bassi che i due si erano dati in pista per anni odiandosi di un odio sportivo ma comunque profondo. Eppure Senna pronunciò proprio quelle parole: «Mi manchi». Questo era Ayrton Senna, un pilota formidabile che in pista avrebbe buttato fuori anche la madre pur di vincere, ma che fuori dall'abitacolo rivelava tutta la sua gentilezza, la sua sensibilità, la sua immensa generosità. Un animo puro, un animo buono, un animo da campione. Un campione che non dimenticherò mai e per la cui scomparsa, dopo vent'anni, ancora non riesco a trattenere la mia commozione.