28 agosto 2025
Aggiornato 14:00
Alzheimer

Alzheimer, ecco i nuovi farmaci e i più innovativi metodi diagnostici

I risultati delle ricerche scientifiche ottenuti nell’ultimo anno da scienziati di tutto il mondo al fine di combattere l’Alzheimer

Farmaci per l'Azlheimer
Farmaci per l'Azlheimer Foto: Shutterstock

La malattia di Alzheimer-Perusini o, più semplicemente, morbo di Alzheimer è una patologia frequente negli over 65, anche se in alcuni casi può manifestarsi anche precocemente. È una forma di demenza che spaventa molta gente perché ha la peculiarità di rubare letteralmente i nostri ricordi e il nostro passato. Ma la mancanza di memoria non è l’unico segnale di questa temibile malattia: si possono manifestare anche repentini cambiamenti di umore, depressione, disorientamento e afasia. La ricerca non ha ancora fatto passi da gigante in merito ma ha scoperto nuove tecniche terapeutiche e metodi diagnostici. Ecco quali sono.

L’ossigeno per ridurre velocemente i sintomi
Questa è forse una delle scoperte più eclatanti dell’ultimo anno: una ricerca condotta dagli scienziati dell'American Friends of Tel Aviv University di New York, ritiene che l’ossigeno potrebbe essere la chiave per ridurre velocemente i sintomi dell’Alzheimer. Lo studio, pubblicato su Neurobiology of Aging, ha messo in evidenza i benefici derivanti da una cura effettuata attraverso l’ossigenoterapia iperbarica. «Abbiamo dimostrato per la prima volta al mondo che l'ossigenoterapia iperbarica può effettivamente migliorare la patologia della malattia di Alzheimer e correggere i deficit comportamentali associati alla malattia», ha dichiarato il coordinatore dello studio Uri Ashery. In sostanza, i pazienti vengono sottoposti a ossigenoterapia iperbarica per poter respirare ossigeno puro in un’apposita camera pressurizzata.

Come funziona la terapia dell’ossigeno
Nella camera pressurizzata la pressione dell’aria è circa il doppio del normale. Ciò consente una migliore solubilità dell’ossigeno a livello ematico e quindi una maggior distribuzione di tale elemento in tutto il corpo. L’ossigeno stimola i fattori di crescita e le cellule staminali che in breve tempo portano alla guarigione. Secondo i risultati ottenuti dagli scienziati, in soli quattordici giorni il gruppo di murini ha migliorato nettamente i disturbi comportamentali, riducendo nel 40% la formazione di placche beta-amiloidi e infiammazione.

Una possibile cura dallo zafferano
Un centro di ricerca italiano del Laboratorio di Neurogenetica, Centro Europeo di Ricerca sul Cervello (CERC), IRCCS Santa Lucia, è riuscito a dimostrare come lo zafferano potrebbe migliorare la condizione dei pazienti affetti da Alzheimer. Durante lo studio, coordinato dal professor Antonio Orlacchio, sono state utilizzate delle cellule immunitarie in vitro provenienti da volontari. Dopodiché sono state trattate con la trans-crocetina, un principio attivo dello zafferano. Dopo la somministrazione i ricercatori sono riusciti a evidenziare una netta riduzione delle proteine beta-amiloidi, proteine alla base della patologia. Le virtù neuro protettive, antiossidanti e antinfiammatorie dello zafferano erano state già messe in risalto in studi precedenti.

La molecola antinfiammatoria che potrebbe eliminare Alzheimer e cancro
Alcuni scienziati dell'Università di Manchester (Gran Bretagna) sono riusciti a dar vita a un composto chimico che blocca alcuni componenti chiave della risposta infiammatoria. Problema che pare essere alla base sia dell’Alzheimer che del cancro. «È un punto di partenza enorme per una nuova generazione di molecole che possono essere sviluppate per mirare alla malattia infiammatoria», ha dichiarati Sally Freeman co-coordinatore dello studio. Se da un lato l’infiammazione può essere utile per riparare tessuti e aumentare la resistenza, quando raggiunge una soglia troppo elevata può causare malattie croniche. La molecola ideata dagli scienziati, potrebbe essere la nuova arma per combattere proprio le malattie croniche. «Le nostre nuove molecole hanno colpito specificamente un importante meccanismo infiammatorio che si verifica nella malattia», spiegano i ricercatori. «La scoperta di questi nuovi composti è davvero eccitante e ci permetterà di comprendere ulteriormente l'infiammazione e le malattie. Sta diventando chiaro che l'infiammazione è direttamente coinvolta in molte malattie e questo è un passo interessante verso il targeting specifico di infiammazioni nocive», concludono Brough e Jack Rivers-Auty.

Il farmaco anti-diabete
E’ una notizia che abbiamo riportato solo ieri: gli scienziati dell'Università di Lancaster sono riusciti a dimostrare come un farmaco sviluppato per il trattamento del diabete di tipo 2 possa «invertire in modo significativo la perdita di memoria», mediante un triplice metodo d'azione. Secondo lo studio, pubblicato su Brain Research, il farmaco potrebbe pertanto essere utilizzato anche nel trattamento della malattia di Alzheimer. Il dottor Holscher, coordinatore della ricerca, ha dichiarato che il farmaco è «una chiara promessa per essere sviluppato in un nuovo trattamento per i disturbi neurodegenerativi cronici come la malattia di Alzheimer». «In assenza di nuove cure in quasi 15 anni, dobbiamo trovare nuovi modi per affrontare l'Alzheimer. È fondamentale esplorare se i farmaci sviluppati per il trattamento di altre condizioni possano essere utili alle persone con Alzheimer e altre forme di demenza. Questo approccio alla ricerca potrebbe rendere molto più rapido ottenere nuovi promettenti farmaci per le persone che ne hanno bisogno». E’ la prima volta che viene utilizzato un farmaco a triplo recettore, il quale combina GLP-1, GIP e Glucagon che sono tutti fattori di crescita. Nel tempo la ricerca ha dimostrato che i problemi con la segnalazione del fattore di crescita sono compromessi nel cervello dei malati di Alzheimer.

Per fare una diagnosi, meglio la PET
Al momento, l'esame più utilizzato per mettere in evidenza la patologia di Alzheimer è la risonanza magnetica. Attraverso questa, infatti, si possono evidenziare eventuali alterazioni anatomiche ippocampali o corticali. In molti casi, tuttavia, tale metodo diagnostico non consente di caratterizzare con certezza la natura dello stato patologico e del suo sviluppo. Secondo Marco Pagani dell'Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del Consiglio nazionale delle ricerche (Istc-Cnr), il metodo migliore è la PET. L’esperto studia da anni il modo di ottimizzare le analisi dei dati del metabolismo cerebrale attraverso, la Tomografia a emissione di positroni (Pet). I risultati delle ricerche, che confermano prestazioni migliori della Pet nella predizione della malattia di Alzheimer, sono stati pubblicati nel mese di novembre sull'European Journal of Nuclear Medicine Molecular Imaging. ll team coordinato da Pagani ha anche apportato innovazioni per ottimizzare le analisi statistiche. «La novità introdotta dal nostro gruppo multidisciplinare di ricercatori e clinici consiste nel segmentare in 90 sezioni l'encefalo, tramite un software disponibile in rete, e accorparle in 20 'meta-regioni' con caratteristiche funzionalmente comuni – prosegue Pagani – L'intensità del segnale in ogni regione, proporzionale alla rispettiva attività metabolica, viene poi analizzata con tecniche statistiche avanzate in grado di identificare le regioni che meglio differenziano i gruppi diagnostici. Abbiamo applicato queste metodologie in modo prospettico a un gruppo di pazienti con un livello simile di deficit cognitivo, che in alcuni casi è evoluto in Malattia di Alzheimer entro 2-5 anni e in altri casi non è evoluto dopo 7 anni. Grazie a questa tecnica siamo riusciti a identificare nel 93% dei casi i soggetti non successivamente colpiti da questa forma di demenza». «Alla Pet eseguita alla prima visita con valutazione neuropsicologica, i pazienti che non hanno sviluppato l'Alzheimer mostrano differenze metaboliche minime o nulle rispetto ai soggetti di controllo sani, mentre nelle persone che si sarebbero ammalate le differenze erano accentuate e proporzionali al tempo di decorso della malattia. Nel momento in cui la metodologia verrà condivisa si potrà creare un database attraverso il quale confrontare gli esami dei pazienti con quelli dei gruppi sani e dei patologici, consentendo ai clinici di effettuare una diagnosi più precisa e di supportare nel modo migliore il malato e chi lo assiste», conclude Pagani.