12 dicembre 2024
Aggiornato 14:30
L'intervista

Massimiliano Fedriga: «Altro che fase 2, le attività potrebbero non riaprire più»

Il Presidente leghista della Regione Friuli Venezia Giulia è tra i più critici contro il decreto sulla ripartenza del governo Conte. Ecco i suoi commenti al DiariodelWeb.it

Massimiliano Fedriga, Presidente della Regione Friuli Venezia Giulia
Massimiliano Fedriga, Presidente della Regione Friuli Venezia Giulia Foto: ANSA

Una ripartenza prudente. Forse, anche troppo. Gli annunci sulla famigerata fase 2, resi finalmente noti dal premier Conte nei giorni scorsi, hanno sollevato un'ondata di reazioni di protesta da parte dei territori. In prima linea, in particolare, alcuni presidenti di Regione, che non hanno nascosto il loro disappunto nei confronti di regole che considerano troppo restrittive, e in alcuni casi hanno addirittura accelerato con l'allentamento delle strette, emanando ciascuno le proprie ordinanze e contro-ordinanze. Tra i più critici il leghista Massimiliano Fedriga, governatore del Friuli Venezia Giulia, che il DiariodelWeb.it ha raggiunto telefonicamente.

Presidente Massimiliano Fedriga, è soddisfatto del Dpcm annunciato da Conte?
Penso che ci sia un problema vero. Leggendo le date che ipotizza il presidente del Consiglio, la mia preoccupazione è che il 18 maggio o il 1° giugno ci saranno aziende, imprese e commercianti che non avranno proprio più la forza di rialzare la saracinesca. A quel punto non si porranno nemmeno il dubbio se restare chiusi o riaprire.

Anche lei, dunque, ritiene che il governo sia stato troppo cauto sulle riaperture?
Non penso che la vera cautela stia nel tenere chiuse le attività, semmai nell'indicare come riaprirle. Ovvero, nel dare istruzioni sulle misure necessarie a garantire la sicurezza in Italia. Io sono stato il presidente di Regione che, all'inizio dell'emergenza, ha deciso di chiudere tutto prima ancora di avere un contagio rintracciato. Invece, a livello nazionale, si è optato per una chiusura a rilento, e ora si riapre in modo ancora più lento. Con danni enormi, sia dal punto di vista economico, che da quello della salute. Mi permette una riflessione?

Certo.
Il disagio sociale, ormai, è talmente enorme che non credo che i cittadini rimarranno a casa solo perché viene detto loro di non muoversi. Anzi, temo che finiranno per uscire, a prescindere. Quindi o gestiamo questa fase con regole precise, altrimenti l'alternativa è che le persone si sposteranno senza regole.

Alcuni suoi colleghi, come Luca Zaia in Veneto e Attilio Fontana in Lombardia, hanno già deciso di allentare alcune restrizioni. Lei ha intenzione di fare lo stesso?
L'ho già fatto, con le mie ultime ordinanze. Ho dato la possibilità di svolgere attività motoria, compresa la camminata con i propri conviventi, in tutto il territorio comunale, di andare a fare manutenzione alle imbarcazioni e, alle attività di ristorazione, di aprire non solo alla consegna a domicilio, ma anche all'asporto. Ora valuteremo le altre questioni, ovviamente nei limiti di legge. Voglio precisare che non sto aprendo nuove attività, poiché questo non è previsto dal decreto legge in vigore, ma solo regolando quelle attività già aperte.

Secondo lei è giusto avere deciso riaperture omogenee su tutto il territorio nazionale?
Secondo me sì. Dopodiché bisogna dare la possibilità alle Regioni di mettere in campo misure diverse e specifiche, laddove esistono aree critiche. E non solo dal punto di vista del contagio, ma anche della conformazione urbana. Ad esempio, penso che Milano, Torino, Roma o Napoli abbiano esigenze e necessità diverse rispetto a un paese di diecimila abitanti.

Il decreto, in effetti, prevede la possibilità da parte delle Regioni di autovalutare l'apertura di nuove zone rosse. Come vi regolerete in tal senso?
Penso che la valutazione debba avvenire sulla prevenzione di nuovi focolai. Quando verrà fuori un nuovo positivo, bisognerà eseguire i tamponi sui conviventi, sulle persone entrate in contatto, sui colleghi di lavoro, per isolare i contagiati: come, del resto, stiamo già facendo. Non credo che, in assoluto, il parametro giusto sia il numero dei positivi: altrimenti sarebbe penalizzato chi fa più tamponi. Per quanto ci riguarda, procederemo valutando come reggerà il nostro sistema sanitario: ad oggi, direi molto bene.

In Friuli Venezia Giulia i dati dicono che siete riusciti a tenere sotto controllo il contagio.
I nostri dati sono i migliori del nord Italia, e migliori anche di alcune regioni del sud. Pensi che avevamo predisposto fino a 170 terapie intensive, ma attualmente quelle attive per Covid sono appena 13. E gli ospedalizzati sono in tutto 130. Questo è merito delle misure che abbiamo messo in campo e della diligenza dei nostri cittadini.

C'è qualcosa che si può imparare dalla vostra esperienza, a livello nazionale?
Intanto bisogna dire che siamo stati fortunati, perché non ci siamo ritrovati i primi focolai in casa, e quindi abbiamo avuto il tempo di organizzarci per contenere l'onda d'urto. Proprio per questo ci è stata utile la chiusura immediata. Io credo che, dal punto di vista sanitario, l'aspetto più importante sia il governo del territorio. Penso, ad esempio, al problema delle case di riposo, che purtroppo esiste dappertutto: in quel caso bisogna evitare ospedalizzazioni di massa. Noi facciamo tamponi a tutti, ospiti e operatori, anche asintomatici, e poniamo i positivi in percorsi e aree isolate oppure, se le dimensioni non lo permettono, li portiamo in altre strutture sicure.

Invece, nei luoghi di lavoro, come si potrà controllare e garantire la sicurezza alla ripresa delle attività?
Con le misure di buon senso: distanziamento sociale, utilizzo di mascherine, igienizzazione delle mani, divieto di aggregazioni, magari entrate contingentate. Non dobbiamo differenziare in base alle tipologie di attività, bensì al modo in cui si lavora all'interno delle singole attività. Chi è in grado di operare in sicurezza è giusto che possa aprire.

E sui mezzi pubblici?
Dovremo ridurre l'afflusso di persone, quindi purtroppo in alcuni casi il servizio sarà più difficoltoso per i cittadini, ma sono sicuro che lo comprenderanno. Noi dovremo fare la nostra parte per potenziare i mezzi. Qualche disagio sarà inevitabile, ma penso che ne valga la pena, perché ci permetterà di garantire sia la salute che la ripresa delle attività. Se ci dimentichiamo di uno di questi due filoni, rischiamo o di far impennare i contagi, oppure di non avere più lavoro. E, a quel punto, la gente morirebbe di fame, invece che di virus.

A proposito di mascherine, e di dispositivi di protezione in generale, qual è la situazione degli approvvigionamenti al momento?
Bisogna essere chiari con l'opinione pubblica. Un conto sono le mascherine chirurgiche e sanitarie, che vanno garantite a chi lavora in sanità e a quelle categorie che ne necessitano per protocollo. Tutti gli altri devono utilizzare mascherine di uso comune, per evitare scarsità negli approvvigionamenti. Che, purtroppo, sono comunque carenti, perché negli ultimi decenni si è deciso di non produrre più in Italia tutta la strumentazione necessaria, compresi i guanti, le tute e i camici.

Ora restiamo in attesa del decreto economico di aprile. Lei che misure si aspetta?
La cosa importante è non portare le attività ad indebitarsi, ma concedere loro liquidità, nei limiti delle capacità nazionali, o quantomeno allentare la pressione fiscale. Penso soprattutto ai negozi, ai liberi professionisti, a chi fa servizi alla persona: insomma, a chi ha poca capacità finanziaria. Non possiamo chiedere loro di indebitarsi per 25 mila euro. Semmai, proporrei un anno bianco fiscale, durante il quale non si sia obbligati a pagare ciò che non si è riusciti a produrre. In Italia, ad oggi, purtroppo non è così.

Sulla scuola, al momento, non sembra esserci alcun piano, e questo rischia di mettere in difficoltà anche le singole famiglie. Come dovranno organizzarsi?
Capisco la delicatezza della scuola, che è un'area dove si può diffondere facilmente il contagio, in particolare tra i più piccoli. Ma inizierei a ipotizzare l'ampliamento del congedo parentale per chi lavora, un bonus babysitter, o un aiuto alle famiglie che non abbiano altre possibilità di accudimento tramite i campi estivi, sempre nel rispetto delle regole e del distanziamento. Altrimenti rischiamo che la gente non possa andare al lavoro perché non può lasciare il figlio di quattro anni a casa da solo.