29 marzo 2024
Aggiornato 15:30
Mafia a Ostia

Il Pm chiede 50 anni di condanne al clan Fasciani

Secondo la requisitoria dei magistrati la popolazione di Ostia è stata collusa o soggiogata dal potere del clan Fasciani. I pm hanno concluso la requisitoria sottolineando il ruolo svolto dagli imputati, «che hanno alternato violenza e investimenti»

ROMA (askanews) - «Collusi o soggiogati». Sono stati così i cittadini di Ostia negli anni del potere di Carmine Fasciani, il capo della omonima famiglia più volte chiamata in causa in inchieste di droga, estorsione, usura. I pm Ilaria Calò e Carlo Lasperanza hanno concluso la requisitoria nel processo bis sulla organizzazione «criminosa di tipo mafioso» sottolineando il ruolo svolto dagli imputati, «che hanno alternato violenza e investimenti». Nel complesso i rappresentanti dell'accusa hanno chiesto oltre 50 anni di condanna per gli imputati. Per il boss Carmine Fasciani i pm hanno sollecitato 10 anni di carcere (più 3 di libertà vigilata); 8 anni (più 3) per la moglie Silvia Franca Bartoli; 7 anni (più 3) per la figlia Azzurra. Sei anni (più 3) sono stati sollecitati per Mirko Mazziotti; 5 anni (più 2) per i fratelli Davide e Fabio Talamoni; 4 anni (più 2) per Fabrizio Sinceri; 5 anni (più 2) per Daniele Mazzini. Tre anni e otto mesi di carcere (più 2) è la pena richiesta per Francesco Palazzi, Gabriella Romani, Marzia Salvi e Marco D'Agostino.

Il metodo mafioso sul litorale romano
La banda «autorizzava omicidi e gambizzazioni, si finanziava con le estorsioni e il narcotraffico, induceva la vittima a negare i soprusi e a non denunciare, si faceva essa stessa imprenditrice per mascherare e schermare la titolarità degli investimenti che facevano capo alla famiglia Fasciani», ha sottolineato ancora il pm Calò. L'accusa contesta l'intestazione fittizia di beni con riferimento a stabilimenti balneari, chioschi-bar, esercizi di ristorazione, società, autovetture, concessionarie e immobili intestati a 'teste di legno', ma riconducibili ai Fasciani. «Il metodo mafioso, rappresentato dall'esazione del pizzo e dall'intimidazione di terzi con l'uso delle armi o comunque della violenza - ha spiegato il pm Calò - ha consentito a questa organizzazione criminosa di infiltrarsi nel territorio, di ridurre la popolazione soggiogata all'omertà e all'assoggettamento, di sfruttare quella zona grigia, rappresentata dall'ausilio fornito da chi sapeva ma ha preferito far finta di niente per trarne comunque beneficio, come commercialisti, direttori di banca, amministratori e esponente politici, imprenditori collusi, per portare avanti i propri affari. Con una mano si facevano gli investimenti e con l'altra si sparava, un impegno spesso concomitante e contestuale».

L'inchiesta dellaGdF
Il processo sulla «intestazione fittizia» dei beni del clan Fasciani nasce da una inchiesta del Gico della Guardia di finanza. L'ordinanza del giudice Simonetta D'Alessandro restituì a suo tempo uno spaccato della malavita del litorale che destò impressione. Le associazioni Libera e Sos Impresa si costituite parte civile con l'assistenza dell'avvocato Giulio Vasaturo. Gli investigatori della Dda, sotto il coordinamento del procuratore aggiunto Michele Prestipino, hanno chiarito anche grazie a una serie di intercettazioni telefoniche e ambientali che le 'teste di legno' erano contigue all'organizzazione. Per questo si arrivò al sequestro di locali noti ad Ostia come il 'Settesei'; 'Rapanui'; 'Yogusto'; ed altre ditte individuali. Tra le attività su cui vennero posti i sigilli anche uno dei lidi più in voga del litorale romano, il Faber Village.

La «politica della mimetizzazione»
Rispetto allo stabilimento l'avvocato Vasaturo ha chiarito: «Per anni questo luogo è stato nel contempo l'emblema simbolico del potere economico esercitato dalla famiglia e lo strumento più efficace di concreto reinvestimento di capitali del sistema del territorio di Ostia». «Gli imputati hanno potuto contare sui servigi resi da 'liberi' professionisti come commercialisti, direttori di banca, esponenti politici e dell'associazionismo, che sono andati ad animare quella 'zona grigia' nel quale è prolificata la malavita». Il pm Ilaria Calò ha spiegato come i Fasciani abbiano attuato la cosiddetta «politica della mimetizzazione», diretta a nascondere i reali proprietari delle attività commerciali e, soprattutto, a preservare i «patrimoni illecitamente accumulati, frutto dei reati di usura, estorsione e traffico di stupefacenti, già, peraltro, accertati, in altri contesti investigativi, dalla stessa Direzione Distrettuale Antimafia di Roma».