19 aprile 2024
Aggiornato 09:00
venture capital

Perchè l’Italia potrebbe essere un Paese per venture capitalist

Aumentano gli investitori delle campagne di equity crowdfunding. Cosa si può fare per sostenere l'investimento in startup

Perchè l’Italia potrebbe essere un Paese per venture capitalist
Perchè l’Italia potrebbe essere un Paese per venture capitalist Foto: Shutterstock

MILANO - Mai come in questi ultimi 12 mesi, il mercato degli investimenti in startup sembra viaggiare su due binari completamente opposti, con un’Italia sostanzialmente spaccata a metà e questa volta non stiamo parlando di geografia (Settentrione VS Meridione, ndr.). Se da una parte abbiamo i numeri impietosi del venture capital - che ha visto nel 2017 il suo anno peggiore, con 57 nuovi investimenti, in calo del 38% rispetto al 2016 (sono aumentati invece gli investimenti successivi al primo round, anche se non sono stati sufficienti a far chiudere l'anno in positivo, secondo Aifi) - dall’altra abbiamo assistito a un vero e proprio boom dell’equity crowdfunding che nei primi 3 mesi del 2018 ha già totalizzato un ammontare di 5,9 milioni di euro su 24 campagne di successo (ne avevamo raccolti 12 nel 2017 con 50 campagne andate a buon fine).

L’equity crowdfunding ha dato la possibilità a tutti (o quasi tutti, ndr.) di investire in startup anche partendo da poche centinaia di euro, con la conseguenza che è aumentato considerevolmente il numero di investitori (oltre 2100, due terzi in più del 2017). «Di fatto l’Italia è uno dei Paesi migliori per sviluppare il venture capital - ha detto Innocenzo Cipolletta, presidente del Fondo Italiano d’investimento -. Abbiamo una percentuale di PMI per abitante molto elevato, delle ottime capacità di fare impresa, buone capacità di ricerca laddove oggi la barriera d’ingresso è crollata notevolmente rispetto al passato. E cosa importante, abbiamo una grande disponibilità di risparmio, circa l’8-9% del reddito famigliare. Questo significa che nel nostro Paese esiste la ricchezza che può sostenere una corretta attività di venture capital».

Oltre a essere una delle nazioni che ha attuato una delle fiscalità più favorevoli rispetto al settore. Secondo PwC e il Centro europeo di ricerca economica di Mannheim (ZEW), l’Italia è al secondo posto al mondo per tassazione favorevole alla digitalizzazione, dietro a Irlanda e davanti all’Ungheria. L’aliquota fiscale media effettiva, che misura l'attrattività di una sede per un investimento è, infatti, solo del -8,84%. Il MISE ha poi previsto una serie di agevolazioni importanti a chi investe in startup, una detrazione dall’IRPEF lorda pari al 30% della somma investita (fino a un investimento massimo di un milione di euro annui) per le persone fisiche; una deduzione dall’imponibile IRES pari al 30% dell’investimento (con tetto massimo di investimento annuo pari a 1,8 milioni di euro) per le persone giuridiche.

Tutte queste buone caratteristiche, tuttavia, restano disattese. «L’innovazione è eversiva - continua Cipolletta - e non è ben accetta dalle imprese famigliari, poiché spesso comporta un cambiamento dei processi e potrebbe anche vol dire modificare le gerarchie. Sicuramente è una questione di comportamento e ci vorrà il tempo necessario. Nel frattempo possiamo lavorare al fine di creare le condizioni migliori».

E condizioni migliori significa anche fare in modo che il mercato non si affossi con le sue stesse mani. A fronte di un numero sempre più elevato di persone che investono in startup attraverso l’equity crowdfunding, infatti, resta invariato l’elevato rischio che questi investimenti comportano. Stiamo parlando, nella maggior parte dei casi, di startup early stage e che hanno quindi un’alta probabilità di fallire nel medio periodo. Cercare di ridurre questo rischio è stato l’argomento cardine dell’evento svoltosi ieri al Fintech Distric di Milano incentrato sul «sindacate investing», promosso in particolare da Matteo Masserdotti di Two Hundred e Digital Magics. Il sindacate investing prevede, infatti, il co-investimento tra investitori meno esperti (investitori retail) e investitori esperti, cosiddetti lead investor. Come spiega lo stesso Matteo Masserdotti, di fronte a numero maggiore di investitori retail, emerge la necessità che gli investimenti stessi vengano ponderati anche sulla base dell’esperienza acquisita nel tempo. L’obiettivo è quindi rendere l’investimento possibile a tutti, ma grazie alle best practice tipiche del venture capital.

Il co-investimento con lead investor da una parte garantisce che la negoziazione con l’azienda sia fatta da investitori che hanno maturato un’esperienza, dall’altra permette agli investitori retail di avere maggiori informazioni sull’andamento della società e quindi sull’investimento che stanno andando a fare e sui suoi ritorni. E tutto questo anche per sostenere ragionevolmente la qualità, di cui abbiamo estremamente bisogno.