Il paradosso delle aziende che (non) fanno formazione: così il bonus Industria 4.0 rischia grosso
Il 51% dei datori di lavoro teme che i dipendenti abbandoneranno l’azienda dopo aver tratto le maggiori competenze possibili dai corsi di formazione
MILANO - Si fa presto a dire formazione. Il bonus previsto dal Piano Industria 4.0 sta facendo soffrire la legge di Bilancio, tra rimpalli e dubbi sulla sua applicazione. Un impatto finanziario troppo elevato che avrebbe indotto il legislatore ad aggiustare il tiro, riducendo il credito d’imposta dal 50 al 40% diminuendo anche il tetto di beneficio massimo per singola impresa a 300mila (notevolmente al di sotto della soglia di un milione immaginata).
Se traballano gli incentivi, di certo non si può dire che, dal loro lato, le aziende facciano meglio, quanto a competenze digitali. L’ingranaggio sulla formazione, infatti, è molto più complesso di quello che sembra. Benché i datori di lavoro siano consapevoli che la mancanza di figure competenti immobilizza la digital trasformazion, dall’altra i dipendenti affermano che i budget per la formazione digitale sono rimasti invariati o hanno addirittura subito un calo in oltre la metà (52%) delle aziende (fonte Capgemini). Ci si riempie la bocca, insomma, ma non si agisce.
Così, i dipendenti finiscono per autofinanziare i propri studi, alla spasmodica caccia di competenze sempre più all’avanguardia, per restare al passo con i tempi, per non essere risucchiati dal vortice tecnologico senza essere capaci di dominarlo. Il 29% dei lavoratori, infatti, ritiene che le proprie competenze siano già state superate o che lo diventeranno nell’arco dei prossimi due anni. L'avanzata digitale impone di essere veloci, i primi. Ma queste skill, purtroppo, non sembre vengono guardate dalle aziende italiane, che finiscono per mettere capaictà diverse nel medesimo calderone: «In Italia molto spesso gli addetti al personale non leggono nemmeno il profilo e si capisce che sono offerte preformattate mandate a masse di persone sperando nella risposta - ci racconta Edoardo Benedetto, CDO and Co-Founder Oval Money - Starteed -. Soprattutto in campo UX dove non guardano veramente se fai quello ma basta che sia scritto nel profilo, a caso, da qualche parte».
La preoccupazione in merito alle skill digitali, ovviamente, spinge i lavoratori (più della metà) a fare i bagagli: il 55% afferma che di essere disposto a trasferirsi in un’altra azienda nel caso in cui dovesse avvertire che le proprie capacità digitali siano in una fase di stallo presso l’attuale datore di lavoro. Allo stesso tempo, è probabile che quasi la metà dei dipendenti (47%) si indirizzi verso quelle aziende che offrono migliori possibilità di sviluppo di queste competenze.
E se il datore di lavoro dovrebbe temere di ritrovarsi da solo in azienda a causa di dipendenti che fuggono verso lidi migliori, la sua maggiore preoccupazione è addirittura paradossale: il 51% di essi pensa che i lavoratori abbandoneranno l’azienda dopo aver tratto le maggiori competenze possibili dai corsi di formazione.
L’ingranaggio sui corsi di formazione digitale in azienda è quindi molto complesso. Il Mise ha messo sul piatto altri 10 miliardi per incentivare le competenze tecnologiche nel nostro Paese, ma se le aziende restano restie ad attivarle per paura di poter perdere i loro dipendenti, non andiamo da nessuna parte. Allo stesso tempo, i lavoratori sono disposti a migrare verso lidi di più flessibili e che promuovono l’agilità, contruibuendo a una crescita delle skill. Di questo basso, tuttavia, il bonus alla formazione previsto dal piano Industria 4.0 (diventato Impresa 4.0) rischia di essere un buco nell’acqua. Per il 45% dei dipendenti i programmi di formazione messi in atto dalle aziende sono ‘inutili e noiosi’ e spesso non viene concesso il tempo necessario per potervi partecipare.
Il credito d’imposta sulla formazione vacilla anche per ciò che riguarda la sua disponibilità: dovendosi applicare a tutta la spesa effettuata nell’anno dalle aziende e non solo all’incremento rispetto al triennio 2015-2017, è possibile che si ricorra al cosiddetto «rubinetto», anche se il Mise, su questo punto, è contrario. Ciò permetterebbe l’accesso al credito d’imposta fino ad esaurimento risorse e, per ora, si parla al massimo di 250 milioni. Salvo riammettere gli esclusi una volta che lo strumento verrà rifinanziato. Se sarà rifinanziato, naturalmente.
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