Facebook, «like» e la libertà di pensiero
Cliccare sull'icona «like» di Facebook - per indicare che una foto o una pagina internet ci piace - fa o no parte della libertà di manifestare il proprio pensiero? Non è una questione filosofica e lo sa bene Daniel Ray Carter, licenziato dal suo datore di lavoro per aver cliccato «like» sul sito di un candidato rivale nelle elezioni per la carica di sceriffo a Hampton, in Virginia
ROMA - Cliccare sull'icona «like» di Facebook - per indicare che una foto o una pagina internet ci piace - fa o no parte della libertà di manifestare il proprio pensiero? Non è una questione filosofica e lo sa bene Daniel Ray Carter, licenziato dal suo datore di lavoro per aver cliccato «like» sul sito di un candidato rivale nelle elezioni per la carica di sceriffo a Hampton, in Virginia.
Carter, che era vicesceriffo, è andato in tribunale sostenendo che la decisione di licenziarlo aveva violato il suo diritto di manifestazione del pensiero («freedom of speech»), protetto dal primo emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti. Ora il suo caso è arrivato in corte d'appello, e promette di essere decisivo per definire i limiti entro cui alcuni comportamenti sui social network possano essere equiparati ad altri più tradizionali modi di esprimere idee e opinioni.
Come riporta il Washington Post, Facebook e la American Civil Liberties Union (Aclu) hanno presentato alla corte d'appello memorie in difesa del diritto costituzionale di Carter di esprimersi. Il tribunale di primo grado infatti aveva deciso che cliccare sull'icona «like» non sarebbe un comportamento protetto dal primo emendamento, in quanto non include «vere e proprie dichiarazioni». Una sentenza che Facebook e le associazioni per la difesa dei diritti civili temono: perché se fosse confermata da tribunali di più alto grado potrebbe essere estesa per analogia a molte altre attività, come il «re-tweetting» (cliccare per rilanciare il 'tweet' di un'altra persona sul proprio account di Twitter). Così, molte attività in rete diventerebbero facilmente oggetto di censura.
Facebook, in particolare, sostiene nella sua memoria che cliccare su 'like' è «l'equivalente del 21mo secolo di un cartello da campagna elettorale» del tipo che si pianta nei giardini delle villette monofamiliari americane, con i nomi dei candidati. Secondo Facebook, ogni giorno i suoi server registrano più di tre miliardi di 'like'.
Alcuni esperti come Eugene Volokh, professore di legge all'Università della California a Los Angeles, ritengono che la decisione di primo grado sia sbagliata, perché secondo la giurisprudenza americana il 'freedom of speech' è protetto anche in caso di comportamenti simbolici e privi di dichiarazioni verbali, come nel famoso caso del 'flag burning' (incendio della bandiera americana), deciso dalla Corte suprema nel caso Texas v. Johnson. Se La corte d'appello dovesse dare dare ragione al giudice di primo grado, insomma, per Carter - e per Facebook - varrebbe senz'altro la pena di portare il loro caso davanti ai giudici di Washington.
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