27 aprile 2024
Aggiornato 03:00
Dal Corano allo sportello di banca

La finanza islamica sta per invadere le nostre città. Siete pronti?

In tanti ne stanno tessendo le lodi. DiariodelWeb.it inizia un approfondimento per capire di cosa si tratta e quali pericoli nasconde. A partire dall'aggettivo più spericolato che si possa associare al termina «finanza»: etico

Perché la finanza islamica riesce laddove la nostra fallisce
Perché la finanza islamica riesce laddove la nostra fallisce Foto: ANSA

ROMA - Quando si parla di finanza islamica gli animi si accendono: forse perché si tratta dell’estremo lembo di un processo globalizzatore che si riteneva in crisi, soppiantato da spinte sovraniste sempre più forti, che erompono soprattutto dalle classi medio basse, quelle che risultano sconfitte negli ultimi trent'anni.

Il pozzo di San Patrizio: islamico
Una ricchezza infinita da cui attingere: questo il significato più popolare afferente alla leggenda del pozzo di San Patrizio. Come in un arzigogolato gioco del destino la locuzione «finanza islamica», antica come le parole del profeta Mohammad in Medio Oriente, ma poco più che ventenne in Occidente, interseca il suo significante di una leggenda derivazione tipicamente cattolica, medioevale. Questo perché la portata della «finanza islamica» è qualcosa che sfida il concetto stesso di finitezza: almeno nella percezione comune. Un pozzo di san Patrizio da cui tutti vorrebbero pescare, soprattutto in Occidente, ormai sempre più affamato di investitori.

Perché la finanza islamica riesce laddove la nostra fallisce
Attenzione: qui si coglie una prima grande caratterizzazione. Il sistema economico occidentale subisce, da anni, un processo di drenaggio del capitale all'origine che, nonostante l'enorme mole di denaro creato dalle banche centrali, non riesce a fertilizzare l'economia reale. La finanza islamica, dati i precetti a cui è assoggettata, apparentemente òvvia tale distorsione. Così, a fronte di una massa monetaria trascurabile, la figura dell'investitore emerge. Questa è la ragione per cui molti analisti finanziari, nonché gli emiri che di fatto controllano l’intero settore finanziario legato all’islam, concordano su un solo aggettivo aduso a descrivere questa ultima gemmazione del capitalismo: infinito. Trilioni e trilioni di dollari giacciono nei caveau materiali e immateriali delle cosiddette petromonarchie, presenti o passate. Di tale ammontare oggi non esiste una classificazione: secondo alcuni analisti le risorse islamiche ammontavano a 3000 miliardi di dollari nel 2015, ovvero l’3% del mercato finanziario globale. Con una crescita pari al 15% annuo.

Una storia antica: il supporto ai bisognosi
La finanza islamica segue i precetti della Sharia, la legge del Corano. Si tratta del terzo dei cinque precetti dell’islam che ogni musulmano deve seguire, ovvero quello inerente la cosiddetta Zakat, il supporto ai bisognosi. Gli altri quattro sono: la professione di fede, le cinque preghiere quotidiane da eseguirsi rivolti verso la Mecca, l’osservazione del digiuno durante il mese di Ramadan, il pellegrinaggio da eseguire almeno una volta nella vita alla Mecca. La Zakat è tale solo se rispetta tre principi: il divieto di chiedere interessi (riba), la condivisione dei rischi e dei profitti tra creditore e debitore e, infine, l'obbligo di appoggiare tutte le transazioni finanziarie su di un attivo reale, e ciò in teoria esclude il ricorso a prodotti derivati.

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Nel Corano il denaro va investito nell'economia reale
La Sharia, le legge coranica per eccellenza, in più punti affronta il tema del denaro: la stretta derivazione dall’Antico e dal Nuovo Testamento fa sì che i punti in comune siano molteplici, ma anche le cesure: nel Corano, il denaro non deve essere immobilizzato, bensì investito nell’economia reale. Il fine di questo precetto è semplice: evitare la speculazione finanziaria in sé, dato che questa genera la riproduzione del denaro dal denaro. In termini teoretici è il tentativo di ovviare alla creazione di una idolatria competitiva a quella teologica, qualunque essa sia. Nel caso specifico, la più insidiosa di tutte: del denaro, già inquadrata dai maestri rabbinici nel culto di Mammona. Idolatria ampiamente analizzata, e condannata, nei Vangeli di Luca e Matteo.

La logica dei sukuk
Per seguire il precetto coranico la finanza islamica si basa sul cosiddetto sukuk, ovvero obbligazioni. I sukuk però hanno l'obbligo di corrispondere ad un determinato progetto materiale e non finanziario: immobili o investimenti produttivi, solitamente. Investimenti che vengono poi ripagati con la proprietà di una parte del bene. E' la base del cosiddetto project financing. Questo meccanismo spiega l’enorme colata di cemento, nel deserto, che caratterizza l’espansione economica della penisola arabica. Città dei balocchi come Dubai, che per altro attirano capitali da tutto il mondo, sono il frutto di investimenti derivanti dai precetti coranici della finanza islamica. Questo ha fatto sì che in tali contesti non si sia formata una gigantesca bolla finanziaria, come in Occidente, ma una altrettanto pericolosa bolla immobiliare.

Superiorità etica?
Rimane in sottofondo, evocato come un mantra, il principio etico che soggiace al settore della finanza islamica. Ora, associare l'aggettivo «etico» al comparto finanziario è quanto di più spericolato possa esistere. Una sorda retorica vorrebbe dare, grazie ai precetti religiosi sopra enunciati, un vago sapore di moralità. Se il rapporto con il denaro, nonché la sua dirompente presa di coscienza, da secoli ci attanagliadentro rompicapi teologici, filosofici e morali, in Medio Oriente e ovunque nel mondo ove l’islam conquista terreno, il problema pare essere superato. Ma è veramente così, o siamo di fronte ad un forzatura dogmatica? Per prima cosa è bene sottolineare che la finanza islamica opera sul mercato tradizionale con prodotti che hanno diversi livelli di rischio: questo in virtù del concetto secondo cui «non vi è guadagno dove non c'è rischio». Anche perché il divieto di usura è una caratteristica delle tre religioni monoteiste, e non solo dell'islam: il deragliamento da tale conditio sine qua non afferisce alla sfera del peccato e quindi del libero arbitrio: ma questo è un altro discorso.

Le ricchezze dell'oro nero
Il mercato della finanza islamica, che piaccia o no, ha invaso il mondo. Un processo che arriva da lontano, ovvero dalla crisi petrolifera degli anni Settanta, quando i paesi del Golfo Persico chiusero i rubinetti dell’oro nero all’Occidente. Ma ha trovato pieno sviluppi dal 2005, anno in cui il petrolio ha iniziato la sua folle corse al rialzo, riuscendo ad arrivare a 150 $ al barile. E' vero che il comparto finanziario islamico non ha patito la grave crisi che attanaglia la nostra parte di mondo perché meno esposto al rischio, ma non si può dimenticare l'immenso drenaggio operato dalle compagnie petrolifere durante la fase speculativa che ha attraversato il prezzo del greggio. Inoltre la struttura sociale dei paesi medio orientali, di fatto privi di welfare state e inchiodati su forme di monarchia assoluta che in Europa non si vedono più da dal 1789, ha permesso una enorme accumulazione di ricchezze in poche mani. Ricchezze che sono state reinvestite prettamente sul territorio, creando un effetto moltiplicatore interno senza pari: almeno per gli emiri che di queste dinamiche si giovano. Le società ove la polarizzazione economica è più marcata sono proprio quelle che hanno generato la finanza islamica, ove ad esempio sono notorie le condizioni di semi schiavitù a cui sono costretti gli operai del settore edile e infrastrutturale. Lo sviluppo correlato alla finanza islamica è solo uno: quello delle grandi opere. Che, in teoria, dovrebbero essere finanziate dagli Stati attraverso la fiscalità.

Green washing e altro...
Se siete giunti fino a questo punto, avrete già capito che dietro il nuovo mito della finanza islamica non si cela né il paradiso del socialismo, né la barbarie del capitalismo: o viceversa, a seconda dei gusti novecenteschi. Si tratta di un sistema finanziario totalmente simile a quello in vigore in ogni parte del mondo, che però gioca sul piano emotivo, investendo sull’imprendibile significato dell’aggettivo «etico». Si tratta di una vecchia tecnica, denominata blue washing, parente stretta del green washing: ovvero il lavaggio di pratiche più o meno moralmente accettabili all’interno di una campagna di marketing fortemente connotata. Ma non questo punto vogliamo affrontare, anche se non possiamo non notare che il rapporto tra etica e capitale è sempre vago, incerto, coperto da una zona d’ombra scaturente dalla soverchiante volontà hobbesiana che alberga nell’essere umano. Nelle prossime righe vogliano tracciare un quadro del cuore della questione: la relazione tra le istituzioni italiane e questa «nuova» forma di credito.

Relazioni pericolose
Stretti, anzi strangolati, dal patto di stabilità a livello locale, le istituzioni si trovano perennemente a corto di risorse. Sempre più spesso i beni immobili vengono venduti per finanziare la spesa corrente. Questa pratica prende il nome di «estrazione di valore», o più propriamente «capitalismo municipale.» L’assunto che sta alla base è semplice, e per altro condivisibile in linea teorica: le istituzioni devono riuscire a mantenersi «valorizzando» il patrimonio che hanno a disposizione. Ovviamente questa è una chimera, perché le necessità di un territorio non potranno mai essere coperte da fantomatici utili delle società partecipate, o dalla vendita di immobili. Anche perché da alcuni settori è semplicemente immorale, tanto per rimanere in tema di valori, estrarre profitto. La condizione della sanità statunitense deve essere un eterno monito rispetto talune pulsioni che imperversano nella classe politica, presente e passata. Così, nel tempo, le istituzioni locali hanno gonfiato enormemente la loro esposizione debitoria con gli istituti di credito. Che in anni lontani furono pubblici. Le istituzioni, strangolate dai debiti, hanno dilapidato immobili storici, aziende di servizio, beni pubblici: tutto per restare dietro al debito e finanziare la spesa corrente. Gli investimenti, soprattutto in infrastrutture, sono fermi da dieci anni un po’ ovunque. Quindi, in poche parole, le istituzioni sono a caccia di denaro. Dove trovarlo? Ecco la risposta: nella finanza islamica, perché etica. Questo perché per salvare il sistema sociale è necessario, il ricatto è sempre lo stesso da decenni, occorre introdurre un’istituzione privata ma «di interesse pubblico».

La teoria delle catastrofi va sempre più di moda in Italia
Per uscire da un catastrofe, quale è la soluzione che richiede meno tempo e meno fatica? Semplice: entrare dentro una catastrofe ancora più grande. Il debito sta scavando, come un meccanismo estrattivo, strati di risparmio comune di che si erano accumulati durante decenni: con le tasse, non per grazia ricevuta. Vendere un palazzo storico per pagare il costo della posa del manto stradale, nella migliore delle ipotesi, è una follia che pagheremo caramente nel momento in cui non avremo più nulla da vendere. In questo senso l’arrivo del nuovo paese dei balocchi collodiano, chiamato «Finanza Islamica» fa capire il senso di bisogno, e per molti versi anche della disperazione, delle istituzioni. Che sono disposte a chiudere un patto molto pericoloso, una coazione a ripetere per altro, pur di finanziare nuove infrastrutture, nelle migliore delle ipotesi. Il tutto in cambio di un sedicente paradiso del capitalismo, dove filantropi, o quasi, sono disposti addirittura a non avere interesse su un investimento. Cosa per altro possibile, attraverso il meccanismo del project financing: la teoria delle catastrofi trova ulteriori conferme.

Come funziona
Facciamo un esempio: il questo momento il Comune di Torino - ovvero l’istituzione che fin dal 2002 porta avanti un forte propaganda inerente la necessità di costruire infrastrutture con la finanza islamica, scenario confermato anche dalla nuova amministrazione - può permettersi di costruire una nuova linea metropolitana? La risposta è no. Oberata di debiti, scaturiti dalla gestione folle Olimpiadi - non dalle Olimpiadi in sé - la Città non ha nemmeno le lacrime per piangere. Si è detta però entusiasta della Finanza Islamica, in quanto etica. La finanza islamica in questo caso serve per creare nuovo debito, semplicemente. Da aggiungere a quello vecchio. Per aggirare il patto di stabilità. Un processo che, per la verità, si potrebbe fare con qualsiasi altro istituto bancario italiano non afferente a precetti teocratici, qualunque essi siano: sarebbe anche molto più etico. Il nuovo debito non viene inglobato nel bilancio nella sua interezza, bensì viene spalmato su un arco temporale più lungo. Cosa accadrebbe se, come auspicato, la linea 2 della metropolitana fosse costruita utilizzando il binomio finanza islamica - projet financing? Ripetiamo: l’unico modello di business possibile se si vogliono utilizzare quei denari. Servono le parole di Marco Travaglio per descrivere tale scenario. Nella prefazione del libro «Le grandi opere del cavaliere», di Ivan Cicconi, uomo di immensa cultura e assoluta moralità recentemente scomparso, il direttore del Fatto Quotidiano scriveva: «Non è facile spiegare ai non addetti ai lavori la truffa spaventosa che si cela dietro parole altisonanti, ovviamente in inglese, come project financing, o general contractor. Ivan Cicconi, pur essendo un tecnico, ci riesce meglio di tanti giornalisti che hanno presa per buona la tragica favola delle grandi opere, con tutto il corollario di faccendieri impresentabili ma sempre a galla e di affari sporchi e passati, presenti e futuri.

Spalmare il debito nel futuro: in eterno
Il project financing è un meccanismo estrattivo perverso: privati, in questo caso grandi gruppi stranieri finanziati da capitale islamico, costruiscono delle infrastrutture di cui poi sono proprietari. Dopo di che, lo affittano, a canoni elevati alle istituzioni. Le quali evitano di indebitarsi nell’immediato, sgusciando così dai vincoli del patto di stabilità, ma poi si trovano strozzati dai canoni di affitto. E questo, fino a prova contraria, la finanza islamica può farlo: perché elude il concetto di interesse. Nel 2015 il buco scaturente da tale leva finanziaria, quindi non afferente al capitale di origine islamico, era pari a 200 (duecento...) miliardi di euro. Siamo di fronte ad una situazione allarmante, abbellita da una propaganda fortemente emotiva che chiama in causa niente meno che l’etica. La questione non è nuova, ovviamente: fu affrontata perfino da Luigi Einaudi nel 1915, nel libro «La finanza della guerra e delle opere pubbliche», in cui veniva teorizzato qualcosa di molto simile al meccanismo sopra citato: il cosiddetto «debito larvato», che ha la caratteristica di abbattersi sulle generazioni future. La cosiddetta «Finanza islamica» ruota quindi intorno all’eterno dilemma: chi finanzia la costruzione di opere pubbliche, o più in generale la spesa dello Stato? Al termine di questa breve panoramica, delle voci ascoltate, non rimane cosa scegliere: procedere verso la liquefazione dello Stato, attraverso il meccanismo estrattivo del debito che porterà alla (s)vendita totale del patrimonio pubblico ai privati. Oppure ad una rinegoziazione che liberi risorse. Dilaga nel mondo la ferrea volontà di distruggere tutto quanto costruito nel novecento, e trasformarlo in un unico capitale fluttuante. Questo processo, per quanto inarrestabile, è tutto tranne che etico.