6 maggio 2024
Aggiornato 10:00
Editoriale

La libertà di stampa non piace nemmeno a D’Alema

Il presidente del Copasir perde le staffe perché a Ballarò salta fuori una vecchia inchiesta de “Il Giornale”

Quando il presidente del Copasir la commissione parlamentare che vigila sui servizi segreti ha detto, rivolto al condirettore de «Il Giornale», Massimo Sallusti: «Vada a farsi fottere», i telespettatori devono aver pensato che in quel momento si stava toccato un altro record storico della televisione spazzatura.
Ma l’ irritazione per le contestazione che il giornalista gli ha rivolto nel corso della trasmissione «Ballarò» ha spinto Massimo D’Alema su un versante molto più impervio di quello che si percorre inevitabilmente quando si risponde con un’ingiuria ad una accusa precisa. L’ex presidente del Consiglio ha infatti intimato a Sallusti: «Io stasera non la faccio parlare più».
E si può star sicuri, vista la veemenza con la quale ha pronunciato la minaccia, che avesse potuto D’Alema avrebbe sicuramente chiuso la bocca al condirettore del «Giornale».

Intanto bisogna ricordare quale è stata contestazione che ha mandato su tutte furie un politico navigato come l’esponente del Pd.
Alessandro Sallusti, senza troppi peli sulla lingua, gli ha ricordato di essere incappato a suo tempo nello scandalo denominato «affittopoli» e quindi di non avere le carte in regola per atteggiarsi a moralista nei confronti della vicenda Scajola.
«Affittopoli» fu proprio un cavallo di battaglia del «Giornale» e svelò la consuetudine dei grandi enti previdenziali pubblici di mettere disposizione di uomini politici (molto spesso di sinistra) e personaggi noti le prestigiose case in loro possesso in cambio di affitti risibili (veramente Sallusti per correttezza a Ballarò si è limitato a dire «fuori mercato»).
Ma quello che ha mandato in bestia D’Alema è stata l’accusa che gli ha mosso il giornalista di avere pagato per anni un affitto da poche lire ( eravamo ancora al tempo delle lire) mentre gli operai di cui si professava paladino per avere un tetto sopra la testa dovevano sborsare buona parte del loro stipendio.
E’ stato a questo punto che il presidente del Copasir ha detto a Sallusti.» Lei è un mascalzone a pagamento».
C’erano i motivi per dirglielo? Tecnicamente no. Perché lo stesso D’Alema non ha smentito di avere usufruito per lungo tempo di una casa di proprietà di un ante pubblico. Ha solo eccepito che l’affitto che pagava era effettivamente basso, ma legale.
Eppure a D’Alema questa verità scodellata al telespettatori è risultata un insulto.

Se non avesse in antipatia la libertà di stampa l’autorevole esponente della sinistra avrebbe avuto tutto il diritto di fare delle distinzioni fra la sua vicenda e quella di Scajola, ma poi avrebbe dovuto ammettere che proprio grazie ad una inchiesta come quella che fece «Il Giornale» su «affittopoli» quell’uso improprio di un bene comune, come le case degli enti pubblici, ebbe termine o perlomeno si attenuò. Tanto che lui stesso ha ricordato che allora, cioè dopo quell’inchiesta, ebbe «la sensibilità» di lasciare quella casa e di porre fine a quel privilegio.
Peccato che D’Alema abbia reagito in modo così scomposto.
Ha perduto l’occasione per ricordare al Presidente del Consiglio che la libertà di stampa non è mai troppa. Lo dimostrano proprio le rivelazioni del quotidiano che fa capo alla sua famiglia che hanno consentito all’opinione pubblica di venire a conoscenza degli intrecci economici che legano la Rai alla parentela di alcuni uomini politici che oggi costituiscono una spina nel fianco del suo Pdl.