26 aprile 2024
Aggiornato 03:00
Malattie degenerative e caffè

Il caffè riduce il rischio di sviluppare Alzheimer e Parkinson

Un nuovo studio suggerisce che bere caffè può ridurre le possibilità di sviluppare malattie neurodegenerative come l’Alzheimer e il Parkinson

Caffè contro Alzheimer e Parkinson
Caffè contro Alzheimer e Parkinson Foto: jazz3311 | shutterstock.com Shutterstock

Su caffè e i suoi effetti si sono concentrati migliaia di studi ormai. E se ci sono sia quelli che ne esaltano le proprietà e quelli che mettono in luce i difetti, i primi sono senz’altro di più. Tanto che, oggi, il caffè pare divenuto una sorta di panacea per tutti i mali. Però la maggioranza delle persone non lo beve per queste presunte o meno qualità, ma più che altro per il piacere che offre la ‘tazzina’. Ora, remando sempre a favore del caffè, un nuovo studio arriva a suggerire che questa bevanda potrebbe addirittura ‘prevenire’ malattie devastanti e gravi come l’Alzheimer e il Parkinson.

Riduce il rischio di Alzheimer e Parkinson
In questo nuovo studio condotto dai ricercatori del Krembil Brain Institute, parte del Krembil Research Institute, si suggerisce bere caffè può anche proteggere dallo sviluppo sia della malattia di Alzheimer che della malattia di Parkinson. «Il consumo di caffè sembra avere una correlazione con un rischio ridotto di sviluppare la malattia di Alzheimer e la malattia di Parkinson – spiega il dottor Donald Weaver, codirettore del Krembil Brain Institute – Ma volevamo indagare sul perché, quali composti sono coinvolti e su come potrebbero influire sul declino cognitivo correlato all’età».

Non è la caffeina a funzionare
Il dottor Weaver, per questo studio si è avvalso della collaborazione del dott. Ross Mancini, ricercatore in chimica farmaceutica e Yanfei Wang, biologo. Il team ha deciso di indagare su tre diversi tipi di caffè, tostato leggero, scuro e scuro decaffeinato. «Il caffè tostato scuro con caffeina e decaffeinato avevano entrambi le stesse potenzialità nei nostri primi test sperimentali – sottolinea il dott. Mancini – Così abbiamo subito osservato che il suo effetto protettivo non poteva essere dovuto alla caffeina».

L’effetto della tostatura
Durante le analisi dei diversi tipi di caffè tostato, il dott. Mancini ha identificato un gruppo di composti noti come fenilindani, che compaiono come risultato del processo di tostatura dei chicchi di caffè. I fenilindani sono unici in quanto sono i soli composti studiati nella ricerca che prevengono, o meglio inibiscono, l’aggregazione sia della placca beta amiloide che della Tau, due frammenti proteici comuni nell’Alzheimer e nel Parkinson. «Pertanto, i fenilindani sono un doppio inibitore, molto interessante, non ce lo aspettavamo», commenta Weaver. E poiché la tostatura porta a produrre quantità maggiori di fenilindani, il caffè tostato scuro sembra essere più protettivo del caffè tostato leggero. «È la prima volta che qualcuno indaga su come i fenilindani interagiscano con le proteine ​​responsabili dell’Alzheimer e del Parkinson – sottolinea Mancini – Il prossimo passo sarebbe quello di indagare su quanto siano utili questi composti e se abbiano la capacità di entrare nel flusso sanguigno o attraversare la barriera emato-encefalica».

Il ‘chimico’ naturale
Secondo il dott. Weaver, il fatto che questi siano un composto naturale o sintetico è anche un grande vantaggio. «Madre Natura è un chimico migliore di noi e Madre Natura è in grado di produrre questi composti. Se hai un composto complicato, è più bello coltivarlo in un raccolto, raccogliere il raccolto, macinare il raccolto ed estrarlo piuttosto che provare a crearlo - avverte Weaver - Ciò che questo studio fa è prendere le prove epidemiologiche e cercare di affinare e dimostrare che ci sono effettivamente componenti all’interno del caffè che sono utili per scongiurare il declino cognitivo. È interessante ma stiamo suggerendo che il caffè è una cura? Assolutamente no».

Riferimento: Ross S. Mancini et al, Phenylindanes in Brewed Coffee Inhibit Amyloid-Beta and Tau Aggregation, Frontiers in Neuroscience (2018). DOI: 10.3389/fnins.2018.00735.