Diabete, da un ormone ecco un trattamento efficace
I ricercatori dell’Università Norvegese di Scienza e Tecnologia (NTNU) e dell’Università di Oxford hanno scoperto un ormone che può offrire un efficace trattamento per il diabete di tipo 2
ROMA – Contro la piaga mondiale del diabete si sono smobilitati in molti, dai ricercatori alle autorità sanitarie con, in testa, l’Oms che in un rapporto ricorda che soltanto ne 2014 c’erano già 422 milioni di persone diabetiche: un numero sottostimato e destinato comunque a crescere. Oggi, un nuovo studio trova un’opzione in più di trattamento in un ormone che controlla l’appetito.
Dal bypass gastrico all’ormone
Poiché, come ricordato dal dottor Magnus Kringstad Olsen del Dipartimento di Ricerca sul Cancro e Medicina Molecolare presso l’NTNU, «Molte persone che sono patologicamente obese hanno anche il diabete di tipo 2». Queste persone obese, per ottenere una più efficace perdita di peso, spesso devono ricorrere al bypass chirurgico gastrico. L’osservazione che questi pazienti dopo l’intervento ha rivelato che ottenevano netti miglioramenti dalla loro condizione di diabete. Tra le diverse ipotesi, i ricercatori hanno pensato che la remissione del diabete di tipo 2 dopo l’intervento chirurgico bariatrico sia dovuta alla maggiore produzione di GLP-1, un ormone coinvolto nella riduzione dell’appetito. Però, con questo nuovo studio, i ricercatori dell’Università Norvegese di Scienza e Tecnologia (NTNU) e dell’Università di Oxford hanno scoperto che un altro ormone, chiamato PYY, possiede molte delle caratteristiche che provocano questo stesso effetto sul diabete.
Un nuovo trattamento
La scoperta dell’ormone PYY e della sua azione antidiabetica derivata dalla riduzione dell’appetito, offre la possibilità di sviluppare nuovi farmaci che lo contengano, in modo che si possa utilizzare nel controllo del diabete. Ridurre l’obesità è dunque un primo grande passo per contrastare l’evoluzione e la diffusione di questa malattia metabolica che provoca ogni anno centinaia di migliaia di vittime. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Cell Reports.
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