19 aprile 2024
Aggiornato 02:00
L'intervista

Stefano Rolando: «Ai partiti conviene l’astensionismo, così controllano meglio il voto»

Il professor Stefano Rolando, direttore dell’Osservatorio sulla comunicazione pubblica della Iulm, commenta al DiariodelWeb.it l’impennata dell’astensione.

Schede elettorali
Schede elettorali Foto: Agenzia Fotogramma

Il dato più emblematico e, per certi versi, preoccupante uscito dalle ultime elezioni è sicuramente quello dell’astensione. Il famigerato «partito del non voto» è quello che ha vinto a mani basse, senza avversari: raggiungendo quasi il 40%. «Un dato significativo per la storia italiana: quattro cittadini su dieci, con un picco nella fascia d'età 25-34 anni», lo definisce ai microfoni del DiariodelWeb.it il professor Stefano Rolando, direttore scientifico dell’Osservatorio sulla comunicazione pubblica, il public branding e la trasformazione digitale presso l’Università Iulm di Milano, che al tema ha dedicato un dossier.

Professor Stefano Rolando, si aspettava un astensionismo così elevato?
Onestamente sì. Già da luglio gli istituti demoscopici avevano tutti previsto che si sarebbe passata la soglia del 30%, a cui si aggiungeva un 10% di indecisi che all'ultimo momento potevano diminuire. Nel 2018 quella soglia l'avevamo solo sfiorata, fermandoci al 28%. Ma alle amministrative e alle europee era andata molto peggio, si era raggiunto il 45%.

Si dice che le consultazioni locali facciano meno presa sugli elettori.
Vero, ma a me quel dato ha colpito molto di più. Ma come: quando si vota per il radicamento sul territorio, conoscendo i candidati, con un rapporto d'interesse personale per l'amministrazione, si arriva al 45%? Questo significa che qualcosa sta succedendo nel Paese.

Che cosa sta succedendo, esattamente?
La parola astensionismo comprende fenomeni socialmente, politicamente, logisticamente diversi. Una causa, su cui ha lavorato molto l'Università di Bologna, è data dalla povertà e dall'indigenza. L'altra è la disaffezione dalla politica, la cosciente protesta nei confronti dei partiti. In questo caso accentuata da una legge elettorale che ha estromesso i cittadini dalla possibilità di prendere qualunque decisione.

Accennava anche a un'altra causa di carattere logistico.
Sì. Il ministro Federico D'Incà aveva nominato a ottobre una commissione di venti esperti, quasi tutti alti amministratori dello Stato, presieduta da Franco Bassanini. Ad aprile, nel disinteresse generale e nel silenzio dei partiti, hanno presentato un rapporto che prevede la norma dell'«election pass», che elimini il problema logistico del voto fuori sede. Poi è andata a finire in un cassetto a causa della chiusura anticipata del parlamento.

L'andamento dell'ultima legislatura può aver influito?
Beh, siamo andati a votare dopo che il Capo dello Stato è apparso nelle case di tutti gli italiani dicendo che i partiti non erano in grado di esprimere né una maggioranza né un governo, di conseguenze non doveva nemmeno negoziare con loro un esecutivo di emergenza. Poi abbiamo scoperto che non erano in grado di esprimere nemmeno il nuovo presidente della Repubblica.

Insomma, una politica dei partiti del tutto smarrita.
La deformazione principale dell'offerta politica, secondo me, deriva dalla prevalenza del marketing elettorale sul posizionamento teorico. Ci si sposta più a destra o più a sinistra a seconda di cosa ci conviene, per intercettare un certo tipo di elettorato o per avere visibilità. Nei partiti questo è il dibattito prevalente: non si è parlato dei programmi, solo delle alleanze.

Questa è la famosa fine delle ideologie?
Peggio. Un conto è buttar via le ideologie, un altro è buttar via le teorie. Senza teoria non si fa alcuna politica, non si amministra nemmeno un condominio.

Qui però non si parla più solo di crisi dei partiti. Molti evocano la crisi della democrazia rappresentativa.
Non lo possiamo dire in forza del 40%, che ci consegna ancora un'ampia maggioranza di voti espressi, rispetto ad altri Paesi in cui la soglia è quasi compromessa. Eppure il partito che ha vinto le elezioni ha in mano il Paese con il 25% di voto espresso, che vuol dire il 15% degli italiani. Questo dato sì che è lesivo della democrazia rappresentativa. Che dovrebbe tenere tutti i partiti con i piedi per terra.

Ciononostante non sembra esserci la volontà politica di intervenire. Di astensionismo i leader parlano per un breve commento pensoso dopo i risultati elettorali, poi il tema sparisce per i successivi cinque anni.
Non ho molta simpatia per Roberto Saviano, ma penso che abbia ragione in questo caso, quando dice che non c'è da stupirsi. I partiti hanno interesse all'astensionismo: meno votanti ci sono, meglio si possono controllare. Infatti non c'è stata alcuna reazione. Complici un po' anche i media che mettono il dato all'ultima riga in modo quasi illeggibile.

Come a dire che non interessa a nessuno.
La crisi dei partiti è la perdita del legame con la società civile: hanno solo il problema di piazzare la loro membership. In Occidente è prevalsa una teoria dei conservatori americani di metà anni '90: nessun senso di colpa per l'aumento dell'astensionismo, perché la democrazia è fatta da chi c'è. Questa teoria è tranquillizzante: va così dappertutto, quindi controlliamo il sistema che si vuole esprimere e che partecipa. Tutto il resto non conta. Anche se dentro all'astensione ci sono enormi problemi sociali e politici.