28 marzo 2024
Aggiornato 13:00
L'intervista

Perri: «I vaccini servono, ma non bastano. Bisogna curare i pazienti a casa»

Il forte appello della dottoressa Francesca Perri, ai microfoni del DiariodelWeb.it, in favore delle terapie domiciliari precoci contro il Covid-19

Perri: «I vaccini servono, ma non bastano. Bisogna curare i pazienti a casa»
Perri: «I vaccini servono, ma non bastano. Bisogna curare i pazienti a casa» Foto: Pixabay

Dalla stessa comunità medica, almeno da una sua fetta piuttosto consistente, giunge un forte appello: non pensate che i vaccini siano la soluzione alla pandemia del coronavirus. Occorre anche intervenire prontamente sui primi sintomi, a casa dei pazienti. Ovvero, quello che centomila dottori in tutta Italia hanno iniziato a fare già dai primi mesi del contagio, seppur inascoltati dal ministero della Salute e isolati dai loro stessi colleghi. Una delle voci più forti in questo senso è stata quella della dottoressa Francesca Perri, vicepresidente dell'area Centro Italia per il Sis 118, che il DiariodelWeb.it ha raggiunto.

Dottoressa Francesca Perri, lei è stata una delle prime a battersi in favore delle terapie domiciliari contro il Covid-19.
Io facevo parte del gruppo dei 100 mila medici, nato spontaneamente su Facebook per un confronto. Parlo al passato, perché di recente ne sono uscita, visto che sulle terapie domiciliari precoci subivamo diversi attacchi, anche da parte dei colleghi.

Già il fatto che i suoi colleghi medici l'attaccassero per l'appartenenza a questo gruppo mi sembra piuttosto grave.
Sì. Sostenevano, come del resto tutti quanti, che non ci siano cure per il Covid. Questo è vero, ma si può intervenire precocemente sui sintomi ed evitare le complicanze tipiche del virus, come la polmonite interstiziale bilaterale e le tromboembolie.

I vaccini possono rappresentare la soluzione definitiva?
Personalmente, ritengo che i vaccini servano eccome, ma non sono sufficienti, soprattutto perché non vengono utilizzati in contemporanea per tutti i popoli, ma solo per chi può spendere. C’è poi da dire che, in Italia, il governo definito dei migliori non ha avuto il coraggio di imporre la vaccinazione obbligatoria. A mio modesto parere, se non si vuole continuare ad inseguire il virus, ma anticiparlo, occorre una strategia multipla, che non è stata messa in atto da nessun governo. Quella che il professor Vespasiani ha definito delle «tre T»: tracciamento, tampone e trattamento. Bisogna rallentare la circolazione del virus, mantenendo il distanziamento, l'utilizzo delle mascherine, la sanificazione e l'aerazione degli ambienti di vita e di lavoro. E, laddove possibile, adottare i trattamenti precoci.

Basta sostenere queste tesi per essere messi all'angolo nella comunità scientifica?
In parte sì. Il rimprovero che ci fanno è di non produrre dati. E questo in parte è vero. Ma noi, dai territori, non riusciamo proprio a raccogliere dati. Io sono un medico emergentista, non di medicina generale. Già l'anno scorso, quando mi mandavano a soccorrere pazienti con dispnea e febbre, scoprivo che erano trascorsi dieci giorni in cui erano stati monitorati solo per telefono, come era stato detto di fare ai medici di base. Solamente all'aggravarsi dei sintomi respiratori veniva chiamato il 118 e li portavamo dritti dritti in rianimazione.

La famosa «vigile attesa» prevista dal protocollo.
Ecco. Questo è successo lo scorso anno, alla cosiddetta prima ondata. Partendo da questa osservazione mi sono chiesta come mai non potessimo intervenire prima del ricovero. Così ho proposto di scrivere una lettera aperta a Speranza, in cui si chiedeva di potenziare i territori e di fornire ai medici i dispositivi di protezione individuale per andare a visitare, ma anche la possibilità di utilizzare farmaci off-label.

Il ministro vi ha risposto?
Bontà sua, Speranza ci rispose. Dicendo, un po' in politichese, che stavano provvedendo, ad esempio con la creazione delle unità speciali di continuità assistenziale. Che, però, sono nate morte: ogni Regione le ha utilizzate in modo diverso. Il Lazio, per esempio, nel 2020 le ha usate per fare i tamponi e non per le visite domiciliari. L'implementazione del territorio e l'intervento precoce, che chiedevamo in quella lettera, non ci sono stati.

Il protocollo, nel frattempo, sostanzialmente non è cambiato.
No. Molti colleghi, adesso, affermano che non preveda solo la «tachipirina e vigile attesa», che siamo noi ad aver interpretato male. Però so che in molti hanno effettivamente interpretato alla lettera.

Possiamo dire che, potenzialmente, questa gestione ha causato delle morti?
Sicuramente lo smantellamento del servizio sanitario nazionale, la chiusura degli ospedali, la riduzione dei posti letto e, in particolare, quelli di rianimazione non hanno giovato alla pronta cura dei pazienti. Il problema è anche questo.

In compenso la sanità si è trasformata in un grande business.
Questo non riesco proprio a tollerarlo. Negli ultimi trent'anni, quando i governi di centrodestra e centrosinistra hanno capito che sulla Salute si potevano fare profitti, hanno cominciato a dire che la sanità era un costo, che bisognava razionalizzare. Questo ha prodotto tagli su tagli, mentre nel frattempo i vari imprenditori si sono fiondati su questo business. Tutti ci hanno lucrato, non pensando al benessere delle persone ma ai loro guadagni. Tanto che sono spuntate come funghi le strutture convenzionate e accreditate.

E quindi l'impatto così forte che il Covid ha avuto, sia sui pazienti che sulle strutture sanitarie, è frutto anche di questo sacco trentennale della sanità pubblica.
Credo fermamente nel servizio sanitario pubblico, anche se so che delle disfunzioni ci possono sempre essere. Ma ho assistito con i miei occhi nel corso degli anni, considerando che sono prossima alla pensione, allo smantellamento del territorio, alla riduzione dei medici di famiglia a meri burocrati, all'aumento abnorme delle liste d'attesa, alla riduzione dei posti letto, alla dismissione di ospedali, alla mancata assunzione del personale sanitario, all'aumento abnorme del precariato, con contratti di lavoro variegati e a volte al limite della fantasia. Siamo quindi giunti doppiamente impreparati alla pandemia, sia perché non conoscevamo questo virus, sia perché la nostra sanità era già al collasso. A tal punto che le stesse aziende sanitarie invitano a ricorrere all'intramoenia o, più spesso, alle strutture convenzionate, anche solo per una visita.