11 dicembre 2024
Aggiornato 13:00
Italia in vendita

Italo venduta a un fondo speculativo americano. Italia sempre più povera e senza prospettiva

Nel tripudio generale si apprende che manager e azionisti di riferimento di Ntv hanno venduto al fondo GIP: storia di una sconfitta spacciata per vittoria

Italo treno
Italo treno Foto: ANSA

ROMA - Resistono solo coloro che hanno un interesse diretto, spesso economico: i sostenitori di una globalizzazione economica che sta demolendo il paese a suon di svendite e svalutazioni. Italo, l’impresa ad alta velocità che doveva far concorrenza alla Trenitalia, è stata venduta ad un fondo di investimento statunitense, la Global Infrastructure Partners. Italo non è più italiana. Eppure questo disastro, l'ennesimo, è celebrato come una grande conquista che porterà innumerevoli vantaggi. Che ci saranno indubbiamente per Cordero, Della Valle e Messima, ma latiteranno per i lavoratori.

Due miliardi e mezzo
La decisione è stata presa al termine di una lunga notte da parte tutti gli azionisti: Intesa Sanpaolo, Generali, Montezemolo, Della Valle, l’armatore Punzo, Cattaneo. Isabella Seragnoli, il patron della Brembo Bombassei e il fondo Peninsula. L’offerta valorizza la società oltre 2,45 miliardi di euro, comprendendo i quasi 500 milioni di debito. Un multiplo venti volte il margine operativo lordo. Ottime notizie, quindi: per gli azionisti. Ma ciò che impressiona maggiormente è la rinuncia, drastica, alla quotazione borsistica, prevista per il 40% delle azioni. Ovviamente si era detto favorevole a questa operazione il governo, in particolare il ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda, nonché Pier Carlo Padoan. Questo per ovvi motivi, che però non sono stati sufficienti per evitare a vendita completa dell’intera società. L’offerta del fondo è stata ritoccata di ottanta milioni di euro, che ha messo a tacere le speranze espresse chiaramente in mattinata dai due ministri: «La quotazione in borsa della società rappresenterebbe il perfetto coronamento di una storia di successo».

Le responsabilità del governo
Successivamente il governo, per voce dei due ministri, lisciava il pelo alla banca di riferimento di Ntv, IntesaSanapolo, fiduciosa che essa stessa potesse fare qualcosa: «Lodiamo la capacità degli imprenditori, del management, delle istituzioni finanziarie a partire da Banca intesa che hanno costruito una grande azienda di servizi con investimenti molto significativi e hanno saputo con coraggio superare anche momenti di difficoltà.»
Intesa, ovviamente, ha venduto realizzando subito un ottimo incasso. E' una banca, non le si poteva chiedere nulla di diverso. L’obiettivo del fondo statunitense Gip è uno sbarco in grande stile in Europa, mercato in cui il trasporto ferroviario ad alta velocità verrò totalmente liberalizzato nel 2020.
Lo Stato esce quindi sconfitto, malamente. Siamo nuovamente di fronte alla prova che la politica non decide più nulla, e nemmeno influenza. Regna il mercato finanziario, la politica industriale è solo un lontano ricordo. Il che non vuol dire l'intervento diretto dello Stato in ogni settore, ovviamente: non a caso il suggerimento di Calenda e Padoan era molto lontano dallo statalismo diretto.

Chi ci perde e chi ci guadagna
Molti analisti sostengono che Padoan e Calenda non dovevano esprimersi in maniera così netta, dato che sono la voce del principale concorrente di Italo, ovvero Trenitalia. Ma la questione è ovviamente più complessa, e si può sostenere che il peccato del governo sia semplicemente stato quello di aver fatto un passo tardivo e debole. Le politiche industriali nel settore trasporti, in un paese civile, non sono espressione diretta del mercato. La concorrenza tra Italo made in Usa e le Ferrovie dello Stato, non potrà che portare ad una contrazione del costo del lavoro su entrambi i fronti. Prospettiva sciagurata in un paese che vede scomparire la classe media sotto il peso della svalutazione del costo del lavoro.
Questo perché il mercato dell’alta velocità in Italia è già liberalizzato, ben più di qualsiasi altro paese: prova è data dalla guerra commerciale che ha portato alle tariffe più basse d’Europa. Chi parla di vantaggi per gli utenti sogna, o mente.
Ma il ragionamento è più ampio e coinvolge l’industria italiana ormai finita all’estero: il rapporto tra ciò che noi acquistiamo e ciò che viene acquistato è imbarazzante. Esclusa l’ultima grande operazione di Ferrero su alcuni marchi statunitensi del settore dolciario è un massacro. La fusione di Fiat con Chrisler - ma è solo un esempio che spiega l'intera fase che stiamo subendo - nonché lo spostamento della testa dell’azienda fuori dall’Italia per motivi fiscali, mettono in evidenza la fuga di risorse umane e capitali. E, senza alcuna offesa per l'industria dolciaria, il settore manifatturiero e quello dei trasporti e infrastrutture valgono ben più delle merendine.

Sacrifici svenduti per spiccioli
Sono secoli di investimenti che scompaiono dall'Italia. Non è una questione «nazionalista», ovviamente: si tratta di sacrifici immensi che un popolo vede volar via, per pochi spiccioli. In cambio importiamo manager stranieri, di cui si possono ammirare le gesta come nel caso dell’Embraco di Riva di Chieri a Torino. Inoltre la vendita, anche a caro prezzo come nel caso di Ntv, a fondi di investimento privati apre le porte alla speculazione selvaggia, che passa attraverso l’unico scopo di questi soggetti: la remunerazione dell’investimento. Schiacciati all’inverosimile i costi del biglietto non rimarrà, come si scriveva in precedenza, scaricare la concorrenzialità sul costo del personale.
Ma è come una marea che si ritira e porta con sé tutto ciò che aveva fatto salire.