19 aprile 2024
Aggiornato 05:00
Sul concetto di regola passando dallo stadio della Roma

La pedagogia di Virginia Raggi: a Roma, e in Italia, finalmente non valgono più le leggi della giungla

C’è stato un tempo in cui i poteri forti della città chiedevano il massimo non già per ottenere il minimo, bensì per avere immediatamente il massimo tra gli applausi. Quel tempo è finito

ROMA - Nella sarabanda di encomi, plausi e congratulazioni, non è semplice comprendere chi abbia vinto e chi abbia perso. I toni di Virginia Raggi e del big boss James Pallotta sono identici, raccontano l’epilogo dell’odissea chiamata «nuovo stadio della Roma» in forma trionfale. Le grandi battaglie dall’esito incerto hanno sempre la stessa caratteristica: i contendenti rivendicano sempre la vittoria finale.

Stadio 2.0
Al termine di una giornata convulsa la sindaca di Roma Virginia Raggi ha annunciato: "E' stato raggiunto un accordo, ci sarà un nuovo progetto che potremmo chiamare 2.0». Il nuovo stadio, il terzo della città, si farà a Tor di Valle: tre torri sono state eliminate e le cubature sono state sforbiciate del 60% nella parte relativa al business park. Si tratta di una trasformazione netta del progetto che, a caldo, appare più sostenibile. Si verserà una nuova innegabile colata di cemento su un pezzo di città, degradato, ma sarà molto meno rispetto quanto previsto dal progetto originario. «Abbiamo rivoluzionato il progetto e lo abbiamo trasformato in una opportunità per Roma», commenta la sindaca, che annuncia un impianto «moderno, ecocompatibile, all'avanguardia dal punto di vista delle tecnologie, un'opera che rispetterà molto di più l'ambiente e il territorio». E aggiunge: «Avevamo detto che lo stadio si sarebbe fatto nel rispetto della legge e lo abbiamo ottenuto grazie anche alla disponibilità della nostra controparte, ora alleata per andare avanti in un progetto ecosostenibile e nell'interesse dei cittadini».

Gli italiani riscoprono il valore delle regole?
Da lontano, la vicenda del nuovo stadio della Roma, così appare: un gruppo di imprenditori del mattone, appoggiati mediaticamente dalle massime corazzate giornalistiche, aveva intenzione di fare un pesante «investimento» edilizio sulla città, sfruttando come leva un impianto sportivo fortemente voluto da una parte, minoritaria ma forte e organizzata, della cittadinanza. La giunta Marino aveva subito ceduto, concedendo tutto e di più. Quella successiva, ovvero la giunta Raggi, avesse potuto avrebbe cancellato l’intero progetto, perché chiaramente non in linea né con i valori, né con il programma del M5s. Si è trovato un punto di caduta che accontenta tutti: un po’ democristianamente.

Si cambia?
I punti di cambiamento quindi ci sono sì o no rispetto chi ha preceduto Virginia Raggi? Non solo Marino, ovviamente. Veltroni, Rutelli e altri che si sono resi protagonisti delle maggiori trasformazioni urbane, leggi alla voce sacco, di Roma? La risposta possiamo sintetizzarla così: c’è stato un tempo in cui i poteri forti della città chiedevano il massimo non già per ottenere il minimo, bensì per avere immediatamente il massimo tra gli applausi. Quel tempo è finito. Oggi, i poteri forti chiedono il massimo per strappare, solo dopo lunga lotta, qualcosa in più del minimo. Minimo che non è poco. Minimo che costerà molto alle casse pubbliche. Minimo totalmente inutile, perché il terzo stadio di Roma, come si evince dai sondaggi, è qualcosa di incomprensibile per la maggior parte degli italiani: compresi i tifosi di calcio.

Non è la rivoluzione, ma è qualcosa
E’ tanto? E’ poco tutto ciò? Indubbiamente non è la rivoluzione promessa durante la campagna elettorale, ma è un buon compromesso. Il cui pregio principale risiede nella pedagogia che esso impone a Roma e all’Italia. Dopo un campagna mediatica oscena, con una sindaca ridotta ad un gomitolo di pelle ed ossa a furia di imboscate giornalistiche – una più squallida dell’altra – non si poteva chiedere nulla di più. Una vera conquista dei nostri tempi, in cui ormai la Repubblica nata nel 1948 altro non era che un mero strumento per il saccheggio del Paese. In cui i politici erano gli esecutori del saccheggio. A Roma si scrive una nuova, sporca, incompleta, rimaneggiata, strappata, pagina della pedagogia politica: che passa dall’anarchismo plasmato sulla volontà di chi comanda la città eterna da decenni, ai primi coraggiosi, parzialissimi, insufficienti, ma coraggiosi «no». Par di capire che questa sia la vera differenza: a Roma, al Campidoglio, non ci sono più i pupazzi dei poteri forti. Ci sono degli sgangherati signori nessuno, che hanno tenuto testa ai Signori della capitale.

Le regole, dimenticate
L’Italia tutta, dagli studenti, ai dipendenti pubblici, agli imprenditori, politici, banchieri, deve tornare a prendere atto che sono le regole a creare la libertà. Sono i confini, i limiti, a creare lo spazio di movimento. Non uno sciocco anarchismo in cui «vale tutto», involuzione del già pessimo e dannosissimo «vietato vietare». Forse, il M5s e Virginia Raggi stanno imponendo tra mille difficoltà una visione del mondo meno liberista, nell’accezione più triviale e brutale del termine. E’ finito, o sta per finire, il tempo dove ognuno fa un po’ come gli pare, e vince quello che urla più forte? Virginia Raggi e il M5s romano hanno questo pregio: aver fatto comprendere che le regole, seppur con una visione flessibile, devono essere rispettate. Non ci sono riusciti completamente, ma è un buon viatico, indispensabile per tutti coloro che hanno vissuto la pacchia degli ultimi decenni, a Roma come in tutto il resto d’Italia.