23 aprile 2024
Aggiornato 09:30
Torino di notte

I nuovi poveri a Torino, una notte con loro tra Porta Nuova e quell'universo di pace chiamato Sermig

Tesori nascosti tra i binari, pasta al sugo e mani ghiacciate. Una nuova, sempre più ampia, legione di sonnanbuli avanza nelle città, accolta da un battaglione di silenziosi volontari senza volto

TORINO - Dalla pasta al sugo si alza fumo bianco, una colonna di calore profumata di pomodoro su cui stendere la mano sinistra, perché quella destra protende verso il piatto di carta; dal guanto di lana bucato escono punta di dita logore, che paion pronte per limare la ghisa. Una fila ordinata tendente al blu con qualche macchia sgargiante, rosso e verdone, pare un gruppo di amici che si ritrova: e poi ognuno per la sua via. C’è chi va nel dormitorio, chi cammina verso i treni, chi ha appena trovato una porta chiusa e non sa dove andare. Scarpe da tennis nei piedi e qualche sogno d’amore da rincorrere, fiocchi di neve appena caduti sopra la testa, fermi sul cappello di lana da marinaio rabberciato. Qui, sotto i portici di Porta Nuova, Torino, la notte si è già allungata insidiosa ed è il momento della cena, mentre là a un passo, nella movida di san Salvario, la notte è appena iniziata, ed è il momento dell’apericena.

Porta Nuova e San Salvario, due estetiche incredibilmente simili
Due estetiche straordinariamente simili qui e là: uomini e donne in piedi, al gelo, berretto sulla fronte, mani intirizzite, mangiano pasta da un piatto di plastica e bevono vino da un bicchiere di plastica; tutti chiacchierano degli affari loro. Qualcuno, qui come là, alza la voce, un po’ alticcio. Si ride, qui come là. Non si fa gazzarra, non si dà fastidio a chi passa, chi esagera viene buttato fuori. E poi ognuno verso la propria notte. Alcuni scannati strozzano la cicca, e poi si infilano in un Mc Donald’s e cercano le ultime bricciche di caldo quando non c’è più nessuno. Giovanni Conchedda e la moglie Ada recuperano le teglie e cabaret, caricano in auto e tornano a casa. Sono in pensione, fanno volontariato così, da soli, nella notte di Torino.

La storia di Giuseppe
Giuseppe, la notte di gelo e neve la passa in un «bel posto, perché qui si sta bene»: è uno scompartimento di un treno notte che arrugginisce da anni, abbandonato in una stazione secondaria, ramo morto. Il ferro della struttura emana gelo da ogni atomo e il dubbio che faccia più freddo dentro che fuori avanza dopo ogni passo all’interno della carrozza. «Si sta tranquilli insomma, il personale lo sa che siamo qua, ma non facciamo del male a nessuno. Sono bravi. Ma anche noi lo siamo». Prima però bisogna scavare tra i binari che ancora hanno le traversine di quercia, nella tana dove il tesoro è stato nascosto: il sacco a pelo in piuma d’oca esce dopo un magico abra cadabra. «Senza sacco a pelo con ‘sto freddo crepi. Punto. Che poi – dice Giuseppe - io ci dormirei pure sotto i portici in centro che è anche più bello. Ma poi capita che vai via un momento e arrivano i vigili che buttano via tutto. E se buttano via tutto, come fai? Io non sono un avvocato ma voglio dire, è legale che mi butti via la mia roba senza nemmeno avvertirmi?» Ma scusi Giuseppe, vada nel dormitorio, no? «Ma scherza? No, no, troppo casino, troppe regole, io devo alzarmi presto e tornare tardi. Lavoro o cerco lavoro, mica posso stare dietro a tutte quelle regole». »Les miserables", i bassifondi di ogni tempo, oggi più che mai hanno la forma della normalità. Nella Cina dell’epoca imperiale afferivano, se volevano, ad una corporazione, che difendeva i loro diritti: oggi, nel selvaggio west post moderno, vagano alla ricerca della primavera sperando che nessuno infierisca. Con il timore che il tesoro possa essere scoperto e gettato tra i rifiuti.

Il Sermig, "un'enorme macchina da pace che combatte la povertà"
Alcuni, tanti, vanno al Sermig, all’ex arsenale della guerra trasformato in utopia hic et nunc da Ernesto Olivero nel 1964. «Tutto ciò che è ipotizzabile avverrà», diceva l’abate Saint Pierre: verità. Si entra schiacciando il tasto del campanello recante la parola «pace» scritta in blu. Quanti pollici e indici devono aver pigiato quel bottone. Fa freddissimo, ma in questo pezzo di Torino fa ancora più freddo perché poco distante scorre il fiume Dora, che piomba dalle montagne della Val Susa carico di ghiaccio e umidità. E’ come entrare nella pancia di un'enorme macchina da guerra, anzi da pace verrebbe da dire, che combatte contro la povertà.

Un esercito di volontari che lavorano per il reinserimento sociale dei più deboli
Qui, in questi immensi spazi, le povertà arriva dal mondo intero e ha tutte le età. Simone ha dieci anni e occhi verdi accesi. E’ sveglio, simpatico, guizzante. Lui vive qui, con mamma e papà che cercano un nuovo inizio. Ed ciò che il Sermig tenta di fare con grande fatica: costruire dei nuovi percorsi di reinserimento sociale. Un battaglione di volontari accoglie e tenta di rimettere insieme i cocci delle vite che si infrangono: un lavoro certosino e invisibile, che ricorda i mosaicisti che, pezzo dopo pezzo, diedero vita a opere di straordinaria bellezza. «Ci vogliono pazienza e dedizione. Però è bello»: così dice la gentile signora Simona che abbraccia il piccolo Simone. Simona racconta l’immensità del lavoro, l’immensità degli spazi, della dedizione, e soprattutto della fatica, con parole minute. Così ci sono le camerette degli uomini, delle donne, gli appartamenti per famiglie, il dentista, il medico, il cuoco, magazzini ricolmi di pasta, panettoni e scatolame, magazzini ricolmi di medicinali, magazzini ricolmi di giochi e vestiti. Qui, dove c’era l’arsenale militare, un plotone di volontari affronta tutti i giorni la prima linea del bisogno. Che a Torino pare sempre più aggressiva.

Il vero problema: la mancanza di lavoro
Il lavoro, il dopo: quello è il problema. Là fuori come qua dentro. Perché un progetto di vita ruota intorno alla costruzione di una dimensione sociale comunitaria, e solo il lavoro porta a questo. Ma è difficile, perché i donatori non mancano, i volontari non mancano, le risorse non mancano: manca il maledetto lavoro, quella forza che dà la possibilità di uscire dal nido e provare a volare di nuovo. Intanto il freddo continua ad aggredire. Ci si sposta, verso altre derive ed altri approdi: si cammina nel buio di un parco cittadino e il manto bianco scrocchia sotto le scarpe. Il silenzio ovattato della neve copre tutto. Tra due file di alberi si apre una prospettiva juvarriana tipicamente torinese su un villaggio di poveri, isolato da tutti. Nel cuore del parco della Pellerina, dentro la città ma lontano dalle luci della città, ecco un altro nugolo di miserables: qui si cerca il caldo dentro dei moduli abitativi di ferro riscaldati. La Croce Rossa gestisce il campo; tutto è silenzioso, alle undici di sera si sta sotto le coperte. Un’armata di sonnambuli vaga per la città, con un cane come amico, rincorsa dai volontari di una città generosa e riservata.