23 aprile 2024
Aggiornato 16:30
Presidenziali USA

Ecco come si vota in America

Vedemecum per il 4 novembre

Martedì prossimo il mondo conoscerà il nome del futuro presidente degli Stati Uniti. Ma mentre si moltiplicano i sondaggi schizofrenici e gli «endorsement» si fanno sempre più numerosi (l’ultimo è quello dell’Economist per Obama), il pensiero torna al pasticcio di otto anni fa quando ci volle più di un mese di dispute legali e la decisione a maggioranza della Corte Suprema per eleggere il nuovo inquilino della Casa Bianca. Quell’episodio fece conoscere, anche ai meno curiosi, il singolare sistema elettorale che martedì eleggerà il successore di George W. Bush. Qui di seguito torniamo a parlarvene. Per fare il punto e per rinfrescare la memoria in attesa della maratona del 4 novembre.

Innanzitutto bisogna chiarire che, nonostante molti dei sondaggi diffusi continuino a fornire le percentuali a livello nazionale, la partita si gioca a livello statale. Il sistema elettorale americano non elegge chi ottiene più voti popolari (nel 2000 Al Gore prese mezzo milione di voti in più di Bush), ma chi conquista la maggioranza dei 538 voti elettorali assegnati, proporzionalmente al numero degli abitanti, ai cinquanta stati più il Distretto di Columbia che ospita la capitale Washington. L’elezione del presidente, quindi, è in realtà indiretta perche attraverso il sistema del Collegio elettorale vigente l’elettore esprimendo il suo voto in verità non vota il candidato ma una serie di Grandi Elettori, a lui collegati, che lo voteranno poi per la Casa Bianca.

A questo punto si chiarisce l’incidente di percorso capitato ad Al Gore 8 anni fa: il candidato che vince uno stato, anche se per uno scarto minimo, si porta a casa tutti i grandi elettori di quello stato, con le uniche due eccezioni di Maine e Nebraska, dove il candidato che perde lo stato potrebbe in teoria ottenere un voto.
L’obiettivo è ottenere 270 voti elettorali, la metà più uno di 538 (in caso di parità a 269, decide il Congresso che per questa volta sarà a maggioranza democratica)

La data delle elezioni è fissata per legge al primo lunedì del mese di novembre. In questo caso il 4. Mentre i tre requisiti indispensabili per diventare presidente sono: un’età superiore ai 35 anni, essere nati negli Stati Uniti e risiedervi da almeno 14 anni.

Nonostante l’attenzione della stampa sia tutta per i due candidati dei più grandi partiti degli States, Barack Obama e John McCain non saranno gli unici a gareggiare. Nella lista saranno presenti anche l’indipendente Ralph Nader (colui che i democratici additarono come una delle cause della sconfitta di Al Gore nel 2000), il rappresentante del libertarian Pary Bob Barr, quello del Constitution Party Charles «Chuck» O. Baldwin, la candidata del Green Party Cynthia McKinney (la vera «eccezione» di queste presidenziali, donna e di colore) e pure il rappresentante dell’America's Independent Party Alan Keyes (anche lui candidato di colore come il suo famoso collega di Chicago). A questa carrellata di volti più o meno noti vanno aggiunti altri cinque candidati (e i loro rispettivi partiti: Boston Tea Party, Prohibition Party, Party for Socialism and Liberation, Socialist Party e USA Socialist Workers Party) per un totale di tredici aspiranti presidenti.

Con tanti candidati, dunque, può accadere che nessuno di loro riesca a conquistare la maggioranza dei voti elettorali. E’ raro, ma è accaduto. Ben due volte. Nel lontano 1800 con Thomas Jefferson e Aaron Burr, e nell’altrettanto distate 1824 con Andrew Jackson, John Quincy Admas, William Crawford e Henry Clay. In questi due casi fu la Camera dei rappresentanti a scegliere il presidente. Regola rimasta invariata ancora oggi, anche se una eventualità simile è ormai praticamente impossibile.

G.R.