26 aprile 2024
Aggiornato 08:00
lavoro agile

Perchè lo smart working in Italia non sta funzionando benissimo

Solo 114 aziende hanno inserito all'interno dei loro contratti la misura di lavoro agile. Una situazione frammentata, caratteristica dell'Italia

Perchè lo smart working in Italia non sta funzionando benissimo
Perchè lo smart working in Italia non sta funzionando benissimo Foto: Shutterstock

MILANO - Da una parte i lavoratori lo vedono un po’ come l’anticamera del licenziamento, dall’altra le aziende tendono a essere ancorate ancora a modelli organizzativi tradizionali, verticali, con un capo al centro, in una logica gerarchica piuttosto che verticale. Il risultato che è il tanto atteso e agognato lavoro agile si è rivelato più un flop che una vera e propria rivoluzione. Almeno secondo i primi dati relativi all'applicazione della legge 81 del 2017 sul lavoro agile, riportata in anteprima da ItaliaOggi.

Il decreto legislativo n. 80/2015, infatti, ha stanziato risorse economiche per gli sgravi contributivi per incentivare la contrattazione di secondo livello finalizzata a sostenere le cure parentali e la conciliazione vita lavoro (art.25), poi finalizzate da un decreto dello scorso settembre. Questo significa che le aziende che effettuavano progetti nell’area di intervento genitorialità (non è il nostro caso) o nell’area di intervento flessibilità organizzativa (lavoro agile, ad esempio) potevano ottenere degli sgravi fiscali, nella fattispecie il 5% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali dell’anno precedente la domanda.

Secondo le prime informazioni, le richieste di sgravio presentate dalle aziende nel 2017 sono state 314 (sono state accettate tutte, eccetto una). Di queste, 231 interessano le misure dell'area d'intervento della flessibilità organizzativa e all'interno di questa categoria la misura del lavoro agile risulta inserita nel contratto da 114 aziende, la flessibilità oraria da 147 aziende, il part-time da 100 aziende, la banca delle ore da 66 aziende e la cessione solidale da 29 aziende (ciascuna azienda doveva indicare almeno due misure che erano quelle previste dal decreto legislativo del 2015).

Al netto delle cause più soggettive, che possono riguardare l’azienda o il lavoratore, una motivazione può essere ricercata anche nell’aspetto più normativo, e nei tempi piuttosto ristretti per chiedere gli sgravi contributivi. Le domande, infatti, dovevano essere presentate entro 15 novembre 2017 e dovevano essere riferite ai contratti collettivi depositati da gennaio a ottobre dello stesso anno. Ma la normativa sul lavoro agile è entrata in vigore il 14 giugno, ed il decreto che disciplinava le modalità per la richiesta degli incentivi è arrivato solo a settembre del 2017. Inoltre la richiesta presupponeva un accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, cosa che non sempre è possibile realizzare in tempi rapidi.

Una situazione quantomeno frammentata considerando che i dati dell’Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano fotografavano l’immagine di un’Italia che sembrava aver accolto di buon grado il lavoro agile, con il 36% di aziende che nel 2017 avevano avviato progetti relativi, contro il 30% del 2016. Secondo questa ricerca sarebbero ben 300mila gli italiani che lavorano con modelli di flessibilità. Numeri confermati anche da Citrix i cui dati parlano di una buona fetta di italiani (23%) che già lavora in ottica smart tutti i giorni.

C’è da dire, però, che la legge approvata lo scorso anno (con l’obiettivo anche di definire esattamente cos’è lo smart working e le forme all’interno delle quali può sussistere), non ha mai sancito un vero e proprio obbligo che spingesse le aziende ad adottare questa tecnologia. «La legge è un grande passo avanti e gli incentivi sono insiti nei benefici che lo smart working può apportare sia al datore di lavoro che al dipendente - ci aveva raccontato Fiorella Crespi, direttore dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano -. Il ddl in questo senso serve a far sì che le persone siano tutelate dal punto di vista normativo e che possano lavorare in modo più intelligente e quindi possano essere più produttive e felici. Da una parte i dipendenti sono più motivati alla produttività in seguito alla fiducia che il datore di lavoro ripone in loro e alla possibilità di conciliare le proprie esigenze. Dall’altra e a specchio il datore beneficerà di una maggiore produttività del dipendente, generata appunto dalla sua facoltà di potersi gestire in maniera più ottimale».

Le legge quindi non pone paletti specifici se non quelli già previsti dai contratti collettivi che tuttavia non hanno nulla a che fare con il contratto di smart working. Il tutto è stato rimandato alla discrezione del datore di lavoro e del lavoratore. E in questa cornice, soprattutto qui in Italia, pare logico che i passi avanti siano stati frammentati e poco significativi.