24 aprile 2024
Aggiornato 00:30
università

Le imprese italiane non crescono perchè non fanno ricerca e sviluppo

Nel triennio 2012-14 solo il 44,6% delle imprese con 10 o più addetti ha svolto attività finalizzate all’introduzione di innovazioni, e il peso della spesa privata in ricerca in Italia si ferma al 54%

ROMA - Aprire, aprire e ancora aprire. Una parola che in Italia conosciamo poco. Ma la speranza è l’ultima a morire e, del resto, i primi passi avanti si stanno già compiendo. Aprire all’innovazione e alla ricerca, ricerca scientifica, tecnologica, imprenditoriale, culturale. Perché lo diciamo da un pezzo che qui da noi è questione di cultura. Ed è per lei, per la tradizione, che l’innovazione arranca e stenta ad affermarsi mettendo radici. L’Open Innovation, in questo quadro, offre ampi margini di miglioramento: si stima che in Italia possa valere circa 35 miliardi di euro. E il rapporto «Università, ricerca e impresa» di italiadecide lo dimostra.

Pensa se facessimo ricerca
Il nostro problema è che non facciamo ricerca. O meglio, la facciamo, ma poi questa rimane segregata nei poli universitari. E tutt’al più si espande all’estero, dove i nostri ricercatori italiani collezionano successi a profusione. Questo è tanto più meritorio se si considera che in Italia la spesa nell’istruzione terziaria vale solo lo 0,9% del Pil, nettamente al di sotto della media Ue (1,4%). Anche in quanto a ricerca e sviluppo non ce la passiamo bene: lo 0,5% del Pil per la ricerca pubblica (contro lo 0,6 della media Ue) e lo 0,7% per la ricerca privata (contro l’1,2 Ue). Una sorta di paradosso italiano. E vien da dire: se già siamo bravi così figuriamoci come potremmo essere se avessimo più fondi.

Più sinergia
Il settore della ricerca pubblica è stato all’avanguardia in Italia nell’affrontare i temi legati a startup innovative, spin-off della ricerca e incubatori universitari. Ma la strada, ancora una volta, va verso la collaborazione. Una maggiore capacità sinergica fra politiche europee e nazionali, fra comparti amministrativi e fra Ministeri. Potenziando strumenti che esistono già, come gli Uffici per il trasferimento tecnologico, e creando sedi di governance strategica delle attività di ricerca. L’angolatura è quella dei processi di formazione della «conoscenza utile» in un paese che attraversa una congiuntura critica. Di fronte a tassi di disoccupazione per i laureati tra i 25 e i 39 anni superiori al 10% (contro il 2% della Germania).

Innovazione industriale senza ricerca
Incrinata anche il settore industriale che della ricerca sembra farsene un baffo. L’Italia è la seconda manifattura d’Europa, con una straordinaria qualità di produttori. Abbiamo una posizione di leadership in molte classi di prodotto: guadagniamo nelle fasce medie e medio alte dell’export tecnologico, e il farmaceutico e l’aerospaziale brillano nell’high tech. Quando passiamo dalla qualità alla quantità, emerge però che i volumi di ricerca prodotti sono modesti. Nel triennio 2012-14 solo il 44,6% delle imprese con 10 o più addetti ha svolto attività finalizzate all’introduzione di innovazioni, e il peso della spesa privata in ricerca in Italia si ferma al 54% (contro la media Ue del 63%). Sono inoltre basse le percentuali di datori di lavoro in possesso di un titolo di istruzione terziaria (22%) e la quota di dipendenti laureati: per ridurre questo gap, è necessario potenziare le iniziative di alternanza università/lavoro e i dottorati industriali. Il supporto delle fasi embrionali e di sviluppo dell’imprenditorialità scientifica non può essere che capitale di rischio. In un contesto privo di big spenders, sono necessarie politiche pubbliche di finanziamento e di promozione dell’innovazione, a rafforzamento di quanto avviato nel 2012 con i provvedimenti dedicati alle startup innovative e con il credito di imposta per gli investimenti di R&S. Grazie a questi interventi l’Italia ha iniziato a riallinearsi agli altri paesi europei e oggi il Piano Industria 4.0 e il «pacchetto capitale umano» aprono la possibilità di un ulteriore sviluppo in questa direzione.