26 aprile 2024
Aggiornato 06:30
innovazione

Sharing Economy Act: «Tutelerà anche l'economia tradizionale»

«Lo Sharing Economy Act ha un duplice obiettivo - ci dice Cristiano Rigon di Gnammo -. Da una parte tutelare le economie esistenti che hanno un asset di valore; dall’altra non andare a imbrigliare con regole troppo rigide quella che è una forma di economia emergente»

TORINO - Quando si parla di sharing economy uno dei commenti più abituali è spesso «sì, tutto bello, ma questi nuovi imprenditori le tasse le pagano?». Già, perché a scatenare le discussioni più fervide è un modello economico che ancora non ha trovato il suo spazio all’interno della normativa italiana. E tutto ciò che è esente da una normativa, per certi aspetti, può essere considerato illegale. Ma è davvero così?

Il boom della sharing economy
La sharing economy, di fatto, muove un’economia che oggi vale 3,5 miliardi di euro, pari allo 0,2% del Pil, secondo l’indagine commissionata all’Università degli Studi di Pavia da PHD Italia, agenzia media e di comunicazione di Omnicom Media Group. Un’economia che raccoglie 6,4 milioni di italiani, in maggioranza appartenenti alla fascia anagrafica tra i 18 e i 34 anni, anche se un buon riscontro si può avere, inoltre, per la generazione meno giovane dei 35-54 anni. Il punto è che stiamo parlando di un fenomeno che nasce dal basso, con prospettive di crescita piuttosto elevate. Dati alla mano è possibile prevedere che nel 2020 l’economia collaborativa supererà il doppio del suo valore attuale raggiungendo gli 8,8 miliardi di euro, equivalenti allo 0,5% del Pil (9,7 milioni di utenti) e nel 2025 crescerà di oltre il quadruplo rispetto a oggi, toccando i 14,1 miliardi, cioè lo 0,7%del Pil con 12 milioni di utenti.

Lo Sharing Economy Act tutela anche l’economia tradizionale
Uno scenario questo che potrebbe far pensare a una costante perdita di posti di lavoro in quella che è l’economia tradizionale. Anche qui i dati hanno il loro peso, in effetti. Secondo il World Economic Forum la rivoluzione industriale generata in buona parte proprio dallo sviluppo della sharing economy costerà all’Italia il 48% dei posti di lavoro tra il 2015 e 2020. Una cifra da capogiro. Ma è anche per limitare la «morte» delle realtà appartenenti all’economia tradizionale che l’Italia ha avviato la stesura dello Sharing Economy Act, una proposta di legge firmata dagli onorevoli Veronica Tentori (Pd) e Ivan Catalano (Misto). Una proposta che ha già fatto discutere, ma che porta l’Italia a credere nel futuro e in un nuovo tessuto imprenditoriale che si sporca finalmente le mani con il digitale. Il suo scopo è quello di disciplinare le piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi e di promuovere l'economia della condivisione. «Lo Sharing Economy Act ha un duplice obiettivo - ci dice Cristiano Rigon di Gnammo -. Da una parte tutelare le economie esistenti che hanno un asset di valore; dall’altra non andare a imbrigliare con regole troppo rigide quella che è una forma di economia emergente. E’ necessario, allo stato attuale delle cose, avere una normativa in base al quale si possano formulare delle certezze in merito a ciò che si può o non si può fare», e questo vale in larga misura per discorso «tasse».

Il lato fiscale
Come hanno più volte portato alla luce le dispute tra tassisti e Uber, il cruccio delle piattaforme di sharing economy è il lato fiscale. Nello Sharing Economy Act è previsto che gli introiti generati dalle piattaforme (ad esempio Airbnb) vengano tassati con una aliquota del 10 per cento. Così fino a un massimo di 10mila euro annui (anche sommabili da diversi servizi). E saranno le stesse piattaforme a dover trattenere la cifra, agendo per sostituto d'imposta, versandola direttamente all'erario per conto degli iscritti. Superata la soglia dei 10mila euro, invece, gli introiti saranno considerati redditi veri e propri e dunque - fiscalmente - andranno sommati agli altri percepiti.