19 aprile 2024
Aggiornato 03:30
XX Congresso del Partito comunista cinese

Xi verso il terzo mandato in un mondo difficile

I rapporti con il partner russo, con l'avversario americano e la questione spinosa della riunificazione con Taiwan rappresentano i bordi di un terreno di gioco in cui Xi si muove per riconquistare rilevanza.

Il Presidente russo, Vladimir Putin con l'omologo cinese, Xi Jinping
Il Presidente russo, Vladimir Putin con l'omologo cinese, Xi Jinping Foto: Agenzia Fotogramma

Tutto è pronto per la partenza del XX Congresso del Partito comunista cinese, destinato a incoronare per il suo terzo mandato il presidente Xi Jinping a dieci anni dal suo arrivo al timone del paese più popoloso del mondo. Oggi si è conclusa settima sessione plenaria del XIX Comitato centrale del Pcc, l'ultima prima della cerimonia d'apertura che è fissata per domenica.

I media cinesi nelle ultime settimane hanno fatto un bilancio entusiasta di questi 10 anni al potere di Xi, ma è evidente che Pechino si trova a dover affrontare una serie d'incertezze e problemi non secondari da risolvere se vuole riprendere la corsa che l'ha resa la seconda economia del mondo e che le fa accarezzare l'ambizione di sfidare gli Stati uniti come prima.

La crisi del Covid-19, con la rigida politica Zero Covid peervicacemente perseguita dallo stesso Xi, e la guerra russo-ucraina, con la conseguente crisi energetica, hanno rallentato fortemente la sua crescita. Il Fondo monetario internazionale, ieri, ha prospettato per il 2022 una crescita del suo Pil del 3,2 per cento, un dato che non era così mediocre da decenni.

Pechino dà segnali d'irrequietezza e difficoltà nel tornare ad assumere il centro nelle dinamiche della politica globale, che dall'invasione russa dell'Ucraina del 24 febbraio s'è messa l'elmetto, andando in un territorio che ha un po' oscurato l'irresistibile ma pacifica ascesa cinese. I rapporti con il partner russo, con l'avversario americano e la questione spinosa della riunificazione con Taiwan rappresentano i bordi di un terreno di gioco in cui Xi si muove per riconquistare rilevanza.

Xi Jinping, dal canto suo, è consapevole che in uno scontro tra blocchi la Cina rischia di essere minoritaria e, d'altronde, l'andamento della guerra in Ucraina, che vede una Russia in grave difficoltà è un memento importante anche rispetto a un'eventuale tentazione di riprendersi Taiwan con la forza. Così la Cina spinge sul tema dell'apertura e della globalizzazione.

I media di stato cinesi continuano a battere su questo tasto, ricordando il discorso di Xi all'ultimo summit BRICS: «Dove va il mondo: pace o guerra? Progresso o regresso? Apertura o isolamento? Cooperazione o scontro?». Domande alle quali Xi ha risposto che Pechino vuole andare in direzione della «pace e della stabilità, promuovendo uno sviluppo globale sostenibile, perseguendo una cooperaizone win-win ed espandendo apertura e integrazione». Il contrario insomma di quel «decoupling» di cui si parla molto tra gli osservatori internazionali.

Però Pechino punta anche a essere una potenza militare e Xi, oltre a essere segretario generale del Partito comunista cinese e presidente della Repubblica popolare cinese, è anche il presidente della Commissione militare centrale, la più alta istituzione di direzione militare dell'Esercito di liberazione del popolo cinese. Dal XVIII Congresso - quello che sancì l'ascesa al potere di Xi - il leader ha spinto per un ammodernamento di procedure, organizzazione e pratiche delle forze armate. Ora però vuole vedere i risultati. «Ostruzioni sistemiche di lungo periodo, incongruità e questioni di politica nello sviluppo della difesa nazionale e delle forze armate sono state risolte, mentre sono state realizzate conquiste storiche nell'approfondire la riforma della difesa nazionale e delle forze armate», ha detto il presidente in un recente intervento. Ora sono necessarie «una seria sommarizzazione e un'applicazione dell'esperienza di successo nelle passate riforme, inserendole nella nuova situazione, con un occhio alle nuove missioni e un focus sulla prontezza al combattimento».

Taiwan, la spina nel fianco

Prontezza a combattere per cosa e contro chi? La risposta è semplice: Taiwan e, indirettamente, contro gli Stati uniti. Non è chiaro se la Cina intenda davvero invadere la «provincia ribelle», ma i segnali di un inasprimento sono evidenti. E a suggerire che le cose in Asia orientale si stanno deteriorando rapidamente c'è anche la retorica del presidente Usa Joe Biden, il quale ha detto più volte che Washington è pronta a difendere Taipei direttamente. Un'affermazione che ha irritato Pechino e che è venuta dopo l'inedita visita della presidente della Camera dei rappresentanti Usa Nancy Pelosi a Taiwan e in pieno dibattito sullo stanziamento di 6,5 miliardi di dollari per armi da destinare all'isola.

Nell'avvicinamento al congresso, certo, l'enfasi sul tema della «riunificazione» è piuttosto forte. Il Consiglio di Stato - cioè l'esecutivo cinese - e l'Ufficio affari di Taiwan all'interno dello stesso consiglio hanno emesso ad agosto un «libro bianco» nel quale si afferma che «la completa riunificazione è un processo che non può essere fermato» e che «le forze esterne che ostruiscono la completa riunificazione (leggi: gli Usa, ndr.) saranno certamente sconfitte». Il documento ovviamente non esclude una «riunificazione pacifica» che porterebbe a '"prospettive luminose», ma di certo il sottolineare l'ineluttabilità storica del ritorno in Cina di Taiwan vincola Xi Jinping a fare di tutto per raggiungere questo risultato.

Alla base di questo stress su Taiwan non ci sono solo questioni storiche, ma anche strategiche. La Cina - che è un paese ben lontano dall'autosufficienza per quanto riguarda le risorse energetiche e le altre materie prime - è ostruita nella sua proiezione verso il mare aperto, l'Oceano Pacifico, dalla strategia del 'lago americano' emersa dopo la seconda guerra mondiale, che vede il gigante asiatico avere come dirimpettai capisaldi della difesa avanzata americana: la Corea del Sud e il Giappone al nord; Okinawa, Taiwan, le Filippine e ora il Vietnam al sud. Questa catena di ferro è in grado non solo di contenere la proiezione militare marittima di Pechino, ma anche eventualmente di creare difficoltà nell'approvvigionamento di materie prime e parti per l'affamato apparato industriale cinese.

D'altronde un paese come Taiwan - primo produttore globale di chip, con la Corea del Sud come secondo - è al cuore della primazia tecnologica americana e occidentale, che ancora oggi è un forte pilastro che sostiene l'egemonia americana nella regione e in termini globali.

Gli Stati Uniti, ostacolo all'ascesa cinese

In questo senso, se un risultato ha ottenuto Donald Trump nel suo mandato presidenziale è quello di aver messo in campo una strategia anti-cinese piuttosto aggressiva incentrata su dazi, sanzioni e restrizioni nelle collaborazioni accademiche sino-americane. Quando Joe Biden ha vinto le presidenziali, a Pechino hanno forse sperato in un cambio di rotta: si sono sbagliati. L'amministrazione democratica ha continuato sulla stessa linea, agitando il panno rosso davanti al toro cinese non solo con le dichiarazioni di Biden, talvolta corrette dal Dipartimento di Stato, ma anche con una collaborazione sempre più intensa con Taiwan e con le altre realtà alleate o semplicemente preoccupate dell'ascesa cinese sul piano militare ed economico, secondo la dottrina 'Free and Open Indo-Pacific'.

Questo ha spinto Pechino a investire sempre di più, da un lato, sull'Iniziativa Belt and Road - il grande progetto di riapertura delle antiche Vie della Seta attraverso un sistema di logistica e connettività euroasiatiche - e dall'altro a provare di creare crepe nel muro creato dagli americani, per esempio titillando gli interessi degli stati insulari del Pacifico, corteggiati in estato con un lungo viaggio dal ministro degli Esteri Wang Yi dai risultati apparentemente non del tutto apprezzabili.

Con la Russia un'amicizia non proprio «senza limiti»

A complicare il quadro, poi, ci si è messa la Russia, che rappresenta per Xi un'opportunità e un problema. Vladimir Putin era stato l'unico leader di peso a recarsi a Pechino per l'inaugurazione delle Olimpiadi invernali e, in quell'occasione, c'era stata un'affermazione di amicizia «senza limiti». Ma da allora il tempo è passato e la Russia ha pensato bene d'invadere l'Ucraina destabilizzando una regione del mondo che Pechino considera importante, tanto da aver fatto robusti investimenti soprattutto sull'agricoltura di Kiev. E nel primo incontro con l'inquilino del Cremlino dopo l'invasione, in Uzbekistan, Xi ha espresso - per ammissione dello stesso Putin - «preoccupazioni» per la vicenda ucraina.

Pechino, ovviamente, in sede Onu si è ben guardata dall'unirsi alla condanna dell'invasione, ma nello stesso tempo ha continuato a chiedere un cessate-il-fuoco e una via diplomatica per la pace. Pur non impegnandosi, apparentemente, in un dossier che non appare destinato ad avere al momento esito positivo e pur rappresentando per la Russia un concreto canale per alleviare le sue perdite sulle entrate per le vendite di idrocarburi, ci sono evidenti segnali di fastidio da parte di Pechino per l'avventura russa. Non è senza significato, per esempio, la decisione di Xi di anticipare l'andata a Samarcanda per il vertice Sco, dove ci sarebbe stato l'atteso summit con Putin, con una visita in Kazakistan: paese che non solo non s'è allineato sull'Ucraina al tradizionale alleato-protettore russo, ma che ha anche deciso di aderire a un regime di sanzioni contro Mosca.

Ci sono due elementi che Pechino non può apprezzare nell'azione di Putin. Il primo è la decisione di invadere un paese sovrano per favorire elementi secessionisti: gli immimenti referendum nel Donbass non possono essere riconosciuti a Pechino, che paventa la possibilità di passi indipendentisti a Taiwan. Il secondo è proprio la destabilizzazione di un punto chiave dell'Eurasia, che ha parzialmente compattato l'Occidente e posto ostacoli alla strategia Belt and Road. Oltre ad aver provocato inflazione, problemi di approvvigionamento alimentare e in definitiva ulteriori ostacoli alla crescita economica, proprio nell'anno del congresso Pcc.

Xi resta al timone, ma cambia la ciurma

I 2.296 delegati eletti al Congresso di un partito che conta 96 milioni di militanti, non saranno chiamati specificamente a definire la politica estera cinese: si tratta di un appuntamento molto più complessivo destinato a tracciare la linea politica del partito e del paese, oltre che a indicare chi ne sarà l'interprete. Non è un caso che questo appuntamento sia stato anticipato da una stretta sugli apparati di sicurezza, con una serie di condanne nei confronti di ex alti papaveri. E sappiamo che ci sarà un rimpasto, a partire dal ruolo del primo ministro. Li Keqiang lascerà il passo e i media internazionali fanno insistentemente il nome di Wang Yang, attuale presidente della Conferenza politica consultiva del popolo cinese, o Hu Chunhua. Ma gli occhi saranno appuntati su chi comporrà il potente Politburo, il sancta sanctorum del potere cinese, e quale sarà l'equilibrio di potere che rappresenterà.

Altro tema fondamentale sarà l'ennesimo emendamento alla Costituzione del partito, che verrà presentato al Congresso. Si sa che da mesi si lavora a questo documento che ha la cruciale funzione di sacralizzare il pensiero e la linea del leader. C'è grande curiosità anche attorno a questo tema, che sarà svelato solo al congresso e che definirà sostanzialmente con quale approccio Pechino intende affrontare il prossimo quinquennio.

Insomma, la Cina oggi oscilla tra una necessità di stabilità internazionale per lasciare campo libero all'economia, la sfida americana che punta a mantenere la sua egemonia e un rapporto controverso e irrisolto con il vicino russo. Una sciarada internazionale che spinge da un lato Pechino a consolidare la sua potenza militare, dall'altro a cercare di perorare la causa della stabilità. Xi si troverà a dover scegliere tra l'una e l'altra se vuole che la Cina consolidi le sue prospettive egemoniche. Dal Congresso capiremo come e con chi intende far navigare la nave cinese in mari più che mai perigliosi.

(di Antonio Moscatello - Askanews)