25 aprile 2024
Aggiornato 03:00
Il 19 dicembre votano i grandi elettori

Dietro le proteste anti-Trump il re della finanza mondiale George Soros?

Donald Trump potrà tirare un respiro di sollievo solo il 19 dicembre, dopo il voto dei grandi elettori. Che qualcuno - pare - starebbe cercando opportunamente di influenzare...

WASHINGTON - Mentre il mondo comincia - più o meno faticosamente - ad abituarsi all'idea di un Donald Trump presidente degli Stati Uniti, mentre le cancelleria internazionali sono in fermento e i quotidiani di tutto il globo si affannano in analisi predittive su ciò che cambierà d'ora in poi, mentre i ministri degli Esteri europei si riuniscono principalmente per parlare dell'«effetto Trump» sull'Europa, al nuovo inquilino della Casa Bianca si prospetta un mese e mezzo delicato, delicatissimo. Per rendere meglio l'idea ed estremizzando un po', si potrebbe dire che no, Trump non ha ancora vinto. O meglio, ha vinto, ma per ora il suo scranno è ancora pericolante. E lo sarà fino al 19 dicembre prossimo, quando al magnate newyorkese sarà (forse) concesso di tirare un sospiro di sollievo.

Il 19 dicembre l'investitura ufficiale
Cosa accadrà il 19 dicembre? L'investitura ufficiale con il voto dei 537 grandi elettori. Fino ad allora, si rimane ancora nel campo delle ipotesi. Soprattutto in un caso come questo, dove il candidato risultato vincente alle urne ha contro praticamente tutta l'establishment. Non per nulla, fino all'ultimo nessuno - nemmeno i grandi quotidiani del Paese - aveva subodorato una sua vittoria.

Dietro alle proteste... Soros?
Che la tensione sia alle stelle, lo dimostrano le manifestazioni contro Trump a cui la stampa americana e internazionale continua a dare grande risalto. Per l'analista Maurizio Blondet, si tratta di un risalto poco giustificato, che tende a modificare la proporzione del fenomeno. Una copertura mediatica che non era stata concessa neppure ai tempi delle grandi proteste contro la guerra in Iraq nel 2003. Soprattutto, però, Blondet nutre il sospetto che tali manifestazioni, «sincronizzate alla perfezione», siano state industriosamente inscenate con la preziosa collaborazione degli studenti locali, ma soprattutto con tanto di pullman colmi di manifestanti «in trasferta», pagati da «qualcuno» perché in America nessuno ha i soldi per perdersi libera un'intera giornata di lavoro. E quel «qualcuno», per Blondet, è sempre lui, il finanziere George Soros, agitatore dell'Est europeo con la sua ben nota Albert Einstein Institution (LEGGI ANCHE «Soros Leaks, perché il ricco speculatore ungherese è il burattinaio dell'ordine mondiale»).

Un monito ai grandi elettori?
A che pro, verrebbe da chiedersi? I «nemici» di Trump starebbero guardando proprio a quel 19 dicembre, forse con la speranza che quelle manifestazioni siano prese, dai grandi elettori, come un educato consiglio, se non una vera e propria intimidazione. Ad oggi, Trump ha dalla sua 290 elettori, Hillary 228. Nulla, però, impedisce ad ogni elettore di  astenersi o rifiutarsi di votare per il candidato a cui è stato collegato dal voto popolare. In gergo tecnico si parla di «faithless elector». E c’è persino qualche precedente: l’ultima volta nel 2004, quando un  elettore del Minnesota rifiutò di votare per il suo candidato democratico, che era John Kerry, preferendo John Edwards, e con ciò rafforzando il numero per la rielezione di Bush jr. (che non ne ebbe bisogno, avendo già 286 voti elettorali).

Una rivoluzione colorata?
E nel campo repubblicano, dove non è un mistero che Trump sia stato decisamente poco apprezzato dall’establishment del Grand Old Party, c’è già chi è pronto a fare di testa sua. Come il grande elettore Chris Suprun, pompiere del Texas, che ha dichiarato che il 19 voterà per Hillary. Al momento non si ha notizia di altri elettori pronti a seguirlo: e ce ne vorrebbero 20, per rovesciare in extremis la situazione. Uno scenario altamente improbabile, dunque, ma che forse qualcuno sta cercando di favorire da lontano. Blondet parla esplicitamente di una «rivoluzione colorata» in preparazione negli Usa contro Trump.

Punto di domanda sulla squadra
Ecco spiegati, forse, gli appelli rivolti a The Donald da una firma prestigiosa come Paul Craig Roberts a fare presto nell'attuare le sue politiche. Politiche che, a parte quello che è stato detto in campagna elettorale e i punti ultimamente ribaditi, sono ancora in realtà difficili da prevedere, almeno finché non si saprà di più della squadra di governo. Per ora ci sono solo due nomi: Rence Priebus, capo del Partito repubblicano, come capo dello staff, e Steven Bannon, uomo dell’ultradestra, come stratega e primo consigliere del Presidente: l’establishment e l’anti-establishment che si fronteggiano nella squadra presidenziale. Qualcuno ventila la presenza nel team di veri e propri lobbisti, addirittura parlando di un segretario del Tesoro da Jp Morgan o da Goldman Sachs.

L'anti-globalizzazione
E’ ancora presto, insomma, per fare pronostici; resta il fatto che il miliardario newyorkese è stato eletto su una evidente spinta anti-globalizzazione. Circola persino una teoria secondo cui la vittoria di Trump sarebbe stata favorita –  o almeno non ostacolata –  da chi, dopo aver voluto la  globalizzazione, vede ora necessaria  una reindustrializzazione degli Stati Uniti, constatando  l’indebolimento della  Superpotenza che resta la loro base e centrale di potere.  Di certo, la presidenza Trump è destinata a riservarci delle sorprese. Sempre che prima non arrivi l'impensabile «colpo di scena».