17 agosto 2025
Aggiornato 23:30
E' una scommessa: non è affatto detto che funzionerà

Libia, il punto debole della «speranza»: l'accordo non mette tutti d'accordo

La notizia della firma dell'accordo sulla creazione di un governo di unità nazionale in Libia è sicuramente un buon segno. Tuttavia, non è affatto detto che aiuterà a superare la crisi. Ecco cosa funziona e cosa no nel «patto della speranza»

ROMA - E' notizia di ieri la firma dell'accordo per la creazione di un governo nazionale in Libia, obiettivo a lungo al centro di lunghe ed estenuanti trattative negoziali condotte sotto l'egida delle Nazioni Unite. Che sia un'ottima notizia, è sotto gli occhi di tutti; eppure, non è affatto scontato che la crisi sia vicina alla sua risoluzione. Del resto, a Malta, tre giorni fa, si sono riuniti i presidenti dei due parlamenti che rappresentano gli intransigenti delle due fazioni, disapprovando la scelta dell'ONU e dell’inviato speciale Martin Kobler e chiedendo ulteriore tempo per negoziare. E il punto è proprio questo: l'accordo è sì passato, ma, di fatto, non «mette d'accordo» tutti.

Come si è arrivati all'accordo
Il motivo è che, dopo la sostituzione dell'ex emissario ONU per la Libia Bernardino Leon con Martin Kobler, per arrivare alla tanto cercata firma si è optato per un «cambio di strategia» nella conduzione delle trattative. Anziché cioè cercare l'approvazione dei due parlamenti contrapposti - quello di Tripoli e quello di Tobruk, che ormai da 16 mesi sono arroccati sulle proprie posizioni -, l'ONU ha stabilito di raccogliere la maggioranza delle firme dei parlamentari dei due congressi e dei rappresentanti locali. In gergo si parla di «bottom up»: in pratica, la mossa è servita a sbloccare lo stallo, e a far franare il potere di ricatto detenuto da milizie e leadership politiche non legittime grazie alla necessità di ottenere voti favorevoli nei due parlamenti.

Un contesto favorevole
Il cambio di strategia ha evidentemente funzionato. L'accordo è passato, complici anche alcune congiunture internazionali favorevoli. La sempre maggiore attenzione sulla minaccia terroristica dopo gli attentati di Parigi; le notizie che testimoniano l'emergere in Libia di nuovi gruppi legati a Daesh; ma anche l'appoggio del governo americano al processo negoziale - grazie alla visita del segretario di Stato John Kerry a Roma -, nonché la straordinaria urgenza della questione siriana, che ha distolto le altre potenze europee dall'eventuale decisione di bombardare l'Isis in Libia - mossa che avrebbe favorito la compattazione delle milizie radicali molto diffuse sul territorio -: tutti questi sono stati fattori utili al raggiungimento dell'obiettivo.

Punti deboli
Eppure, la nuova strategia di cui si parlava lascia - è evidente - molti nervi scoperti. Perché la non partecipazione di vari attori locali e milizie al negoziato - specialmente di coloro che de facto detengono il potere - apre potenziali fronti di crisi. Oltretutto, non c'è garanzia che il nuovo governo a Tripoli rimarrà incolume fisicamente e libero da intimidazioni e minacce, visto il clima comunque carico di tensione. Se il peggio accadesse - come peraltro avvenuto in passato -, questo potrebbe compromettere l'efficacia del nuovo esecutivo. La speranza su cui si è basato il processo è che l'autorevolezza di un nuovo governo sostenuto e riconosciuto a livello internazionale potesse ridurre al minimo questi rischi: sarebbe infatti interesse di tutte le parti partecipare al processo negoziale, piuttosto che fare passi falsi che possano determinare la propria l'esclusione. Eppure, non vi è alcuna evidenza che le cose andranno proprio così: si può solo sperare.

In cosa bisogna sperare
Non rimane che sperare, appunto, che coloro che si sono sempre mostrati più intransigenti e indisponibili all'accordo rinuncino a fare fronda: in particolare, il generale Haftar, che dovrebbe essere sostituito ai vertici dell’esercito libico per poter sperare in una convivenza con le milizie di Misurata, e le milizie islamiste della Tripolitania, dalle fondamenta decisamente poco stabili e dagli obiettivi di potere comunque ambiziosi. E soprattutto, bisogna sperare che, con la collaborazione di tutti gli attori in gioco, si possa arrivare a costituire uno stato libico libero e unito, con istituzioni efficaci in grado di far ripartire il settore energetico.

Troppo presto per esultare
Come si vede, ci sono due letture della definizione che il ministro Gentiloni ha dato a questa giornata: «giorno di speranza». Da un lato, è certamente un segnale di speranza la firma dell'accordo; dall'altro, però, è solo la speranza - e nessuna evidenza - che depone a favore di un epilogo felice. Per affermare che la scommessa è stata vinta, dunque, occorrerà attendere, e, soprattutto, impegnarsi ulteriormente sulla via del paziente il dialogo, evitando di forzare troppo la mano sulle parti più riluttanti.