19 aprile 2024
Aggiornato 07:30
Obama ha rotto la sua promessa

Pasticcio Afghanistan, l’ennesimo clamoroso insuccesso di Obama

Se ne sarebbero dovuti andare entro il 2014. Ieri, l'ennesimo rinvio, con cui Obama infrange la sua principale promessa elettorale: soldati americani rimarranno in Afghanistan almeno fino al 2017. Cosa sta accadendo?

WASHINGTON – Non bastava la Siria e la lotta contro lo Stato islamico: a macchiare il curriculum di Barack Obama in politica estera – è ormai acclarato – spicca anche l’Afghanistan. Proprio ieri, il presidente americano ha rotto una delle principali promesse del suo duplice mandato, cioè quella di mettere fine «responsabilmente» entro il 2014 a una guerra che ha ormai compiuto più di un decennio. Entro quella deadline, gli Stati Uniti hanno in effetti abbassato la quantità di contingente presente nel Paese del 90%, ma, contrariamente agli auspici, migliaia di soldati sono rimasti sul campo. Lo scorso anno, infatti, la Casa Bianca ha dovuto annunciare un rinvio: i militari presenti sarebbero stati ridotti a 5.500 entro la fine del 2015, e azzerati entro il 2016. Lo scorso marzo, un nuovo cambio di programma: Obama ha deciso di lasciare 9.800 soldati fino a fine anno. Ieri, l’ennesima retromarcia: quel contingente rimarrà fino a tutto il 2016, mentre il presidente lascerà ai suoi successori un Afghanistan con ancora (almeno) 5.500 soldati americani. Perché tanti rinvii? Che cosa è andato storto?

Altro che pace...
Che l’Afghanistan non fosse il Paese pacificato e democratico che Obama si sarebbe forse aspettato di lasciare in eredità ai posteri lo si era capito già da tempo. 14 anni dopo l’invasione, secondo il New York Times, ancora un quinto del Paese è controllato dai talebani. Nonostante più di un decennio di combattimenti e anni passati ad addestrare l’esercito e la polizia afghana – un programma costato agli Usa più di 65 miliardi di dollari – l’Afghanistan rimane un Paese instabile, fragile, con truppe e forze dell’ordine non in grado di garantirne la sicurezza e il governo Ghani tragicamente lontano dal salvaguardarne la stabilità. Lo stesso tentativo di intavolare una trattativa con i talebani, se possibile, ha esacerbato ulteriormente le tensioni: perché se il Mullah Mansour ha di fatto accettato di partecipare al tavolo negoziale, dall’altro lato l’unica strategia usata per acquisire forza negoziale, da parte dei suoi uomini, è stata l’uso della forza.

Kunduz, lo spartiacque
Così, non solo i talebani sembrano essersi diffusi ancora di più di quanto non lo fossero nel 2001; ciò che ha fatto cadere ogni illusione in merito alla situazione del Paese è stata, il mese scorso, la presa di Kunduz, città del nord situata in una delle province dove la presenza talebana è più radicata. Tale conquista è stata la più straordinaria vittoria incassata dai talebani dal 2001 a questa parte, e avveniva proprio mentre a New York, in occasione dell’Assemblea generale Onu, i Paesi impegnati militarmente e finanziariamente ribadivano la volontà di continuare a finanziare e istruire l’esercito nazionale, ma non certo quella di riaprire il capitolo prettamente militare. Così, la presa di Kunduz e il successivo bombardamento, avvenuto «per errore», dell’ospedale di Medici senza frontiere hanno evidentemente costretto Obama a riconsiderare radicalmente i suoi programmi, dopo quello che gli ufficiali della Casa Bianca hanno definito «un esteso e lungo lavoro di revisione».

Affermazione di forza dai talebani
In effetti, il rilancio della guerra da parte dei talebani è stata una vera e propria affermazione di forza che giunge dopo la morte del Mullah Omar e le varie tensioni che ne hanno segnato la successione. Il fatto che l’offensiva sia giunta dal Nord, in più, può costituire un segnale che la guerriglia intenda spingersi verso Kabul. Oltretutto, tale affermazione di forza potrebbe essere diretta non solo al governo, ma anche all’Isis, che, in costante ascesa nel Paese, ha di recente accusato i talebani di non essere in grado di garantire «stabilità» alle aree controllate, come invece avviene in Iraq e in Siria con il Califfato. Se a tutto ciò si aggiunge una situazione economica in netto peggioramento, continue tensioni con il vicino Pakistan e una fragilità istituzionale ancora evidente, si comprenderà come l’Afghanistan sia ben lungi dal costituire un teatro ormai pacificato.

La scelta di Obama
Di fronte a tutto ciò, a Obama si proponevano due opzioni: o mantenere fede alla propria promessa elettorale, oppure, dopo averla rivista a più riprese, infrangerla definitivamente. Entrambe le strade gli avrebbero comportato rovesci della medaglia non indifferenti, a livello di impatto sull’opinione pubblica e non solo. Eppure, il presidente deve aver capito che, in termini di costi-vantaggi, la seconda strada sarebbe stata comunque più vantaggiosa. Come spiegato da Dario Fabbri su Limes, l’intento principale è stato quello di evitare che il Paese scivolasse nel caos ancor prima della fine del suo mandato, macchiando così palesemente e senza appello la sua eredità geopolitica. Altro obiettivo, quello di conservare un significativo avamposto in Asia Centrale, regione dove l’influenza di Mosca e Pechino cresce prepotentemente. Infine, Obama deve aver compreso che lasciare l’Afghanistan avrebbe significato reiterare quanto accaduto in Iraq,  dove il totale ritiro non ha risolto nulla, ma ha reso più evidente il fallimento dell’intera missione. Resta inteso che, con tale cambio di strategia, Obama non è comunque riuscito a salvarsi del tutto «in corner». Perché quella decisione, seppur finemente ponderata, è comunque il risultato del totale insuccesso di una delle più longeve guerre mai portate avanti dagli Usa. Una guerra che non è stata decisa da Obama, ma a cui Obama aveva promesso di porre fine. La sconfitta rimane clamorosa.