Gibuti preferisce Cina agli Usa, è crisi con i Paesi del Golfo
I Paesi del Golfo, che avevano intenzione di insediare una propria base militare a Gibuti, hanno infatti optato per la grande rivale Eritrea, a causa degli stretti rapporti tra Gibuti e l'eterna rivale degli States: la Cina
GIBUTI (askanews) - E' bastata la rottura dei rapporti diplomatici tra Emirati arabi uniti e Gibuti per ridisegnare tutte le alleanze attorno al Golfo di Aden. I Paesi del Golfo, che avevano intenzione di insediare una propria base militare a Gibuti, hanno infatti optato per la grande rivale Eritrea, spingendo il presidente gibutino Ismail Omar Guelleh a sfruttare la posizione strategica del proprio Paese per alimentare la rivalità tra Washington e Pechino. Salvo poi cercare di rimediare ai rapporti con Washington, volando ad Addis Abeba, il 25 luglio scorso, per incontrare il presidente americano Barack Obama.
Incidente diplomatico
Tutto ha inizio il 27 aprile scorso, a Gibuti, con un alterco tra il comandante dell'aviazione gibutina e il viceconsole degli Emirati su un atterraggio non autorizzato all'aeroporto di Gibuti di un velivolo di Abu Dhabi, impegnato nell'intervento militare in Yemen con la coalizione araba guidata da Riad. Secondo quanto riportato dalla Newsletter The Indian Ocean, l'ufficiale gibutino avrebbe schiaffeggiato il viceconsole che si era recato allo scalo per accogliere l'equipaggio. Immediata la reazione degli Emirati, che il giorno successivo all'incidente hanno chiuso il consolato, facendo rimpatriare console e viceconsole, e il 4 maggio hanno annunciato la rottura dei rapporti diplomatici.
Risposta dei Paesi del Golfo
Ma non si è fatta attendere neanche la risposta dei Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc, composto da Arabia saudita, Emirati, Kuwait, Bahrein, Oman, Qatar, ndr) che, sempre il 28 aprile, hanno richiamato le truppe dispiegate a Gibuti a inizio mese, in vista della creazione di una base. E il giorno successivo, il 29 aprile, il re saudita Salma bin Adbulaziz al Saud ha firmato un accordo di partnership militare e di sicurezza con il presidente eritreo, Isaias Afewerki, a seguito della visita di due delegazioni, da Riad e Abu Dhabi, lungo la costa eritrea. Stando a quanto appreso da The Indian Ocean, il leader eritreo ha offerto a Riad la propria disponibilità ad accogliere la base del Gcc, ottenendo in cambio l'impegno dei Paesi del Golfo a modernizzare l'aeroporto di Asmara e a costruire nuove infrastrutture.
Eritrea-Paesi del Golfo
Di fatto, un primo concreto sviluppo di questo nuovo rapporto tra Eritrea e i Paesi del Golfo si è avuto lo scorso 30 luglio, quando la compagnia aerea di Dubai, Flydubai, ha annunciato voli diretti tra Dubai e Asmara a partire dal prossimo 25 ottobre, con quattro collegamenti a settimana. Secondo la ricostruzione di The Indian Ocean Newsletter, Guelleh ha tentato subito di contattare il presidente degli Emirati ed emiro di Abu Dhabi, Khalifa bin Zayed al-Nahyan, sull'incidente avvenuto con il viceconsole, ma senza successo. E una settimana dopo, le autorità degli Emirati hanno fatto sapere di non aver ricevuto scuse adeguate e hanno sospeso l'emissione di visti agli imprenditori gibutini che si recano a Dubai per i loro rifornimenti. Di fatto, ha rimarcato The Indian Ocean Newsletter, l'emiro voleva le scuse del Capo di Stato di Gibuti, di cui aveva cominciato a non fidarsi dopo la revoca unilaterale, nel giugno del 2014, del contratto di concessione all'azienda di Dubai, DP World, per la costruzione del porto di Doraleh, affidato ai cinesi della China Mercharts Holdings International.
Kerry in Gibuti
Negli stessi giorni dello scontro con i Paesi del Golfo, Gibuti ha ricevuto la visita del segretario di Stato Usa, John Kerry, a cui Guelleh ha chiesto di intervenire per risolvere la crisi con gli Emirati, ottenendo però un rifiuto netto. Pochi giorni dopo, il 9 maggio, Guelleh ha quindi annunciato di negoziati in corso con la Cina per la costruzione di una base militare permanente nel Paese del Corno d'Africa, dove gli Stati Uniti hanno la loro unica base di tutto il continente africano. Poco dopo l'annuncio, attorno al 20 maggio, le autorità gibutine hanno quindi ordinato alle truppe americane di lasciare il sito a Obock, nel Nord del paese, per consentire a Pechino di costruire la propria base navale, che dovrebbe ospitare circa 10.000 uomini, per un costo annuale di 100 milioni di dollari. Da allora le truppe americane hanno iniziato a trasferire a Camp Lemonnier, situato nell'area dell'aeroporto internazionale di Gibuti, tutte le attrezzature di comunicazione e di sorveglianza usate per monitorare lo stretto di Bab-el-Mandeb. L'accordo tra Gibuti e Pechino dovrebbe essere ratificato in via ufficiale a dicembre, in un incontro tra Guelleh e il presidente cinese Xi Jinping.
Cina protagonista
Nel piccolo Paese africano, le esportazioni cinesi sono nove volte quelle americane e Pechino è già impegnata nella costruzione delle infrastrutture. Guelleh non ha mai fatto mistero di voler trasformare il suo Paese in una sorta di Singapore, costruendo sei nuovi porti e due aeroporti, con l'ambizione di diventare l'hub commerciale dell'Africa Orientale. Complessivamente sono 14 i progetti previsti, per un valore stimato in 14,4 miliardi di dollari, perlopiù finanziati da banche cinesi. A fronte di tale impeto allo sviluppo in molti ormai sospettano che il presidente gibutino sia ponto a riformare la Costituzione per potersi candidare il prossimo anno a un quarto mandato, come già fatto nel 2010, quando promise che sarebbe stata l'ultima volta. Di fatto, però, la Cina è uno dei principali partner di tutti i Paesi del Corno d'Africa, di cui sostiene lo sviluppo economico con prestiti a basso costo, cancellazione di debiti e tariffe preferenziali. E non è un caso, forse, che Barack Obama ha visitato la regione a fine luglio, facendo tappa nei due principali partner degli Usa, Kenya ed Etiopia, per ribadire il forte interesse americano nell'aerea, dove appunto sono dispiegate truppe e mezzi Usa usati nella lotta al terrorismo in Africa e in Medio Oriente, e controbilanciare la presenza cinese.
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