McQueen simbolo della crisi della moda
Il giovane stilista non ha retto alle pressioni del suo mondo
NEW YORK - L'attesa Fashion Week di New York - 65 eventi organizzati sotto tre tende per 8 giorni - si è aperta giovedì con una notizia tragica: la scomparsa dello stilista britannico Alexander McQueen, trovato morto nella sua casa londinese. Proprio giovedì pomeriggio la sua linea jeans, la McQ, avrebbe dovuto essere presentata alla Milk Gallery, a Chelsea, uno dei quartieri simbolo della moda newyorkese. La collezione di McQueen era attesa come uno degli eventi più importanti per la stagione autunno-inverno 2010. Anche alle sfilate di Londra e Parigi, le settimane prossime, erano attese le creazione del bad boy della moda britannica.
Quarantuno anni fra un mese, McQueen poco tempo fa aveva detto alle persone che lo conoscevano di aver trovato un nuovo equilibrio, un nuovo amore e relazioni stabili. La sua morte è stata uno shock: suicidio dicono i giornali inglesi. Com'è possibile, come mai questa tragedia? Il fiorentino Stefano Tonchi, direttore di T Magazine, la rivista del New York Times dedicata a moda e life style, conosceva bene il giovane stilista. «McQueen era uno dei geni della nostra generazione», racconta Tonchi. «L'anno scorso abbiamo scritto un profilo su di lui perché sembrava che Alexander si fosse calmato, avesse abbandonato quegli eccessi di droghe e di cocktail di pillole che lo avevano portato molto vicino a un tracollo sia fisico che psicologico».
Tre anni fa l'equilibrio di Alexander era stato messo a dura prova dalla morte della persona a lui più vicina, la giornalista Isabella Blow, «Isy», come veniva chiamata nel mondo della moda. «Per McQueen è stata più di un'amica, una compagna di strada», ricorda Tonchi. Per il direttore di 'T Magazine' il suicidio di McQueen va oltre i lutti e le difficoltà personali, diventa l'emblema delle contraddizioni del mondo della moda: «E' un segnale della crisi del settore di cui si è parlato molto nell'ultimo anno, soprattutto con la crisi finanziaria».
«La moda - continua - già da tempo si chiedeva se il business avesse ucciso la creatività: questo è forse il prezzo da pagare per il successo commerciale. Lo sviluppo di un marchio non è più controllato dagli stilisti e dai designer, ma da gruppi quotati in borsa a cui interessano più i numeri che la qualità dei prodotti». Tonchi continua a spiegare, si appassiona all'argomento: «Quello che conta quindi è la forza economica, la distribuzione internazionale. Con risultato che la moda diventa sempre più omologata, banale».