2 maggio 2024
Aggiornato 20:30
Corte di Cassazione - Sezione lavoro - sentenza 22 settembre, n. 23966

Calcolo dell'importo dell'indennità di cessazione del rapporto degli agenti di commercio

Il giudice deve sempre applicare la normativa che attribuisce il miglior risultato

Con sentenza del 22 settembre, n. 23966 la Sezione lavoro della suprema Corte di Cassazione ha stabilito che ai fini del calcolo dell'importo dell'indennità di cessazione del rapporto degli agenti di commercio il giudice deve sempre applicare la normativa che attribuisce loro il miglior risultato.
Quanto sopra deriverebbe dalla lettura dell'articolo 1751 del Cod. civ. e dagli AEC

Fatto e diritto
Il Giudice del lavoro del Tribunale accoglieva integralmente il ricorso del dipendente e condannava la società al pagamento in suo favore delle provvigioni su affari stornati per accordo fra mandante e clienti, di indennità per mancato preavviso e di indennità di cessazione del rapporto ex art. 1751 c.c. (quest'ultima indennità, in particolare, calcolata nel massimo importo previsto dalla legge, in luogo di quella liquidata ai sensi dell'art. 12 dell'A.E.C. settore commercio del 26-2-2002, considerato che «la non omogeneità degli elementi delle due fattispecie impedisce di stabilire se la disciplina contrattuale sia complessivamente peggiorativa rispetto a quella legale, con conseguente applicazione dell'art. 1751 c.c.»).
La società allora presentava ricorso in Corte d’Appello chiedendo di essere mandata assolta da ogni pretesa avversaria.
La Corte d'Appello, in parziale accoglimento dell'appello riduceva gli importi dovuti dall'appellante oltre rivalutazione ed interessi, e lo condannava a rimborsare all'appellato 1/3 delle spese di entrambi i gradi di giudizio, compensando gli altri due terzi.
Per quanto riguarda l’indennità di cessazione del rapporto ex art. 1751 c.c., la Corte territoriale d’Appello riformava la sentenza di primo grado «spettando al dipendente solo quanto riconosciutogli in base all'A.E.C. vigente all'epoca della cessazione del rapporto», in quanto trattandosi di stabilire se la disciplina collettiva avesse introdotto un trattamento migliorativo o no per l'agente rispetto alla disciplina legale, la valutazione doveva essere effettuata operando ex ante un raffronto fra le due discipline astrattamente considerate e cioè prescindendo dal risultato concreto, di migliore o di peggior favore per l'agente.
In tale quadro la Corte d'Appello rilevava che la disciplina dettata dall'A.E.C. risultava migliorativa per l'agente rispetto a quella legale, e, conseguentemente, era pienamente valida ed efficace.
Contro tale sentenza il dipendente si è allora rivolto in Cassazione per la cassazione di tale sentenza.
A tale riguardo, dopo aver richiamato le vicende relative alla attuazione della citata direttiva comunitaria, le modifiche dell'art. 1751 c.c. di cui ai D.Lgs. 303/1991 e 65/1999 e la giurisprudenza di legittimità in materia, nonché, da ultimo, l'intervento della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, (sent. 23-3-2006 in causa C-465/04) e le pronunce della stessa Corte di Cassazione (n. 21309/2006 e 21301/2006), il ricorrente in sostanza censura la sentenza impugnata per aver la stessa «statuito che l'Accordo Economico Collettivo oggetto di lite sarebbe comunque più favorevole per l'agente rispetto alla norma legale, senza aver verificato se l'applicazione di tale accordo garantisce, in ogni caso, all'agente commerciale un'indennità pari o superiore a quella che risulterebbe dall'applicazione della norma legale».
Per il dipendente la Corte d’Appello «avrebbe dovuto domandarsi se facendo applicazione nel caso di specie della norma di cui all'art. 1751 c.c. l'odierno ricorrente avrebbe o non avrebbe avuto diritto a percepire un'indennità di importo maggiore rispetto a quello conseguente all'applicazione dell'A.E.C.» e nel procedere a questo accertamento la stessa Corte «avrebbe poi dovuto tenere conto che l'art. 17 della Direttiva non impone il calcolo dell'indennità in maniera analitica, ma sono invece consentiti metodi di calcolo diversi, e, in particolare, metodi sintetici, che valorizzino più ampiamente il criterio dell'equità, in considerazione delle circostanze del caso concreto ed in particolare dei vantaggi acquisiti dal preponente per effetto dell'attività promozionale dell'agente e delle provvigioni da quest'ultimo perse».

La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha quindi cassato la sentenza che ha effettuato solo un raffronto astratto fra la disciplina dell'AEC e quella legale, senza verificare il risultato migliore alla luce delle vicende del rapporto di lavoro cessato.
Per la Cassazione l'indennità di cessazione del rapporto non può essere sostituita, in applicazione di un accordo collettivo, da un'indennità determinata secondo criteri diversi da quelli fissati da quest'ultima disposizione a meno che non sia provato che l'applicazione di tale accordo garantisce, in ogni caso, all'agente commerciale un'indennità pari o superiore a quella che risulterebbe dall'applicazione della detta disposizione.
Per la Cassazione il giudice deve sempre applicare la normativa che assicuri all'agente, alla luce delle vicende del rapporto concluso, il risultato migliore, siccome la prevista inderogabilità a svantaggio dell'agente comporta che l'importo determinato dal giudice ai sensi della normativa legale deve prevalere su quello, inferiore, spettante in applicazione di regole pattizie, individuali o collettive»
Pertanto l'art. 1751 cod. civ. (anche nel testo successivo al D.Lgs. n. 65 del 1999) va interpretato nel senso che il giudice deve sempre applicare la normativa che assicuri all'agente, alla luce delle vicende del rapporto concluso, il risultato migliore, siccome la prevista inderogabilità a svantaggio dell'agente comporta che l'importo determinato dal giudice ai sensi della normativa legale deve prevalere su quello, inferiore, spettante in applicazione di regole pattizie, individuali o collettive.
Tale conclusione non impone il calcolo dell'indennità in maniera analitica, mediante la stima delle ulteriori provvigioni che l'agente avrebbe presumibilmente percepito negli anni successivi alla risoluzione del rapporto, in quanto per l'art. 17 della direttiva gli Stati membri godono di un potere discrezionale di fissare metodi di calcolo diversi, di carattere anche sintetico, in modo da valorizzare il criterio dell'equità, che tenga conto delle circostanze del caso concreto ed in particolare delle provvigioni perse dall'agente».
La sentenza impugnata, che ha operato un raffronto in astratto fra la disciplina dell'AEC e quella legale, senza verificare il risultato migliore alla luce delle vicende del rapporto concluso, va cassata con rinvio alla Corte di Appello che dovrà attenersi ai criteri sopra enunciati.

Sentenza del 22 settembre, n. 23966 la Sezione lavoro della suprema Corte di Cassazione (PDF)