20 aprile 2024
Aggiornato 09:00
Umore e salute

Vuoi ridurre il rischio di infarto? Sii ottimista (parola di scienziato)

Secondo alcuni scienziati della Northwestern University si può ridurre il rischio di infarto e ictus insegnando a un paziente come affrontare la vita

L'ottimismo riduce il rischio di infarto e ictus
L'ottimismo riduce il rischio di infarto e ictus Foto: Paraksa | Shutterstock Shutterstock

La vita è piena di alti e bassi, ognuno di noi ha sperimentato momenti di immensa gioia alternati da quelli di estrema tristezza. Scalare ardue montagne o trascorrere il proprio tempo a contemplare passeggi incantevoli fa parte dell’alternanza dell’esistenza umana. Qualunque momento si stia vivendo in questo momento, però, una cosa è certa: bisognerebbe sempre imparare a vedere il lato positivo della situazione. D’altro canto, anche una ricerca scientifica sembra essere d’accordo: dai risultati è emerso che l’ottimismo ci permette di ridurre il rischio di infarto e ictus. Ecco perché.

Impatto diretto sulla salute cardiovascolare
Pare che l’ottimismo aiuti notevolmente la salute cardiovascolare. Un atteggiamento positivo nei confronti del domani, infatti, sembra agire direttamente sul rilascio di alcuni ormoni collegati allo stress, alla frequenza del polso e alla pressione sanguigna.

Vivono diversamente
Dai risultati ottenuti dallo studio sembra anche che le persone che hanno una visione ottimistica, generalmente hanno più voglia di fare esercizio fisico e mangiare meglio e, in più, hanno meno probabilità di fumare e di bere in eccesso. È quanto è emerso da una recente ricerca coordinata da alcuni scienziati della Northwestern University di Chicago in collaborazione con quelli della Harvard School of Public Health di Boston.

Riduzione delle malattie cardiovascolari
La ricerca ha evidenziato come le persone che avevano l’abitudine di guardare alla vita con ottimismo, assistevano a una riduzione del 38 percento di morire per un evento cardiovascolare. Mentre chi perseguiva un preciso obiettivo aveva meno possibilità di assistere alla comparsa di un ictus.

Yoga e tai chi
Secondo i ricercatori, ci sono alcune soluzioni che potrebbero migliorare sia la visione della vita che la salute cardiovascolare. Tra queste anche lo yoga e il tai chi, ecco perché ritengono che i medici dovrebbero consigliare tali discipline ai pazienti a rischio. «Abbiamo affrontato il modo in cui l'ambiente sociale, il benessere psicologico e l'efficacia delle strategie di intervento possono contribuire a rafforzare la prospettiva di un paziente. Ci siamo concentrati sul fatto che il benessere psicologico possa essere coerentemente correlato a un ridotto rischio di malattie cardiache. Gli ottimisti perseverano utilizzando strategie di risoluzione dei problemi e di pianificazione per gestire i fattori di stress. Se gli altri si trovano di fronte a fattori fuori dal loro controllo, iniziano a spostare i loro obiettivi e utilizzano strategie di coping potenzialmente disadattive, che alla fine si tradurranno in un aumento dei livelli di infiammazione e di una salute generale del cuore meno favorevole», ha spiegato il professor Darwin Labarthe, della Scuola di Medicina Feinberg della Northwestern University.

Gli ormoni che danneggiano il cuore
Lo studio ha mostrato come l’umore possa influenzare notevolmente alcuni tipi di ormoni. Per esempio, l’ottimismo riduce il rilascio di ormoni dello stress e dell’ansia come l’adrenalina e il cortisolo i quali possono incidere negativamente sulla pressione sanguigna. Chi è meno stressato ha livelli di colesterolo e di infiammazione vascolare più bassi. Ma non solo: ha una migliore risposta immunitaria e maggiori quantità di antiossidanti nel sangue. «Può sembrare difficile aiutare i pazienti a modificare il benessere psicologico di fronte a una nuova diagnosi medica, ma non è impossibile. Si possono avere discussioni centrate sul paziente che riguardano le fonti di benessere psicologico. Le informazioni su attività specifiche per promuovere il benessere sono una piccola, ma significativa, parte delle cure di un paziente», conclude Labarthe. I risultati dello studio sono stati pubblicati sul Journal of the American College of Cardiology.